Alcuni giorni fa, il 13 maggio, è morto Pepe Mujica, punto di riferimento della sinistra sudamericana, e di tutta la sinistra mondiale, guerrigliero tupamaros ai tempi della dittatura nel suo paese, imprigionato e torturato per 13 anni, e lui che diceva, dopo tante sofferenze, “Non odio nessuno, l’odio è un peso che non voglio portare”, Presidente dell’Uruguai, colui che dava il 90% del suo onorario per la lotta alla povertà nel suo paese. Trai vari titoli che ne annunciavano la morte: “Addio al rivoluzionario gentile”, “Se n’è andato il Presidente gentile”, “Pepe Mujica, il guerrigliero di buon senso che diventò presidente”.
Alcuni giorni prima, il 9 maggio, a Elmas, a cura di Equilibri, era stato presentato “L’incontenibile forza della gentilezza”, di Ottavio Olita. Nel suo dialogare con l’autore Massimo Dadea ha definito Olita “uno scrittore militante”, spiegando come la sua scrittura sia impregnata di passione civile e delineandone perfettamente gli intenti e i significati, tra romanzo e realtà, come si legge nel sottotitolo del libro.
Dunque la parola gentilezza acquista un suo senso e un suo spessore, sfuggendo ad ogni rischio di facile buonismo. La gentilezza al contrario si carica di fermezza e radicalità, non ha niente di moralistico ed è figlia della ragione. E quando nonno Luigi, uno dei protagonisti del romanzo, si scaglia contro i medici che non riescono a salvare sua moglie Elisa, ormai malata terminale, è lei che lo rimprovera per i suoi scatti d’ira “ Io credo – e vorrei che te ne convincessi anche tu – che se si riesce a far vincere razionalità e gentilezza in un luogo di sofferenza e dolore, ma anche di speranza, come un reparto d’ospedale, diverrà più agevole riuscire a praticarle nel resto della quotidianità, rendendo migliore la vita di tutti”.
Tra i diversi temi presenti nel romanzo acquistano rilevanza il tema delle carceri e quello dell’immigrazione, ed è su questo terreno che la gentilezza assume le forme dell’accoglenza, della solidarietà, della tollarenza, del recupero. Il libro si sofferma, tra realtà e utopia, sull’esperienza storica della Comunità “La collina” di don Ettore Cannavera, a cui vengono affidati giovani da un Tribunale: in quel luogo, tra le amene colline del Parteolla, si è gentili ma fermi e radicali: regole, orari, lavoro, cura della campagna, studio, incontri culturali, perché ai giovani che hanno spesso commesso crimini gravissimi, anche omicidi, si offre la possibilità di una alternativa al carcere e dal profondo del pozzo si può risalire.
Sull’immigrazione e sulla sicurezza si è stanno costruendo le fortune delle destre in tutto il mondo, le quali agitano la sindrome falsa dell’invasione, la retorica della difesa della razza e della etnia, la paura che richiede la difesa delle frontiere, su un fenomeno complesso, le cui ragioni si spingono nel profondo della storia coloniale, del passato e del presente, e sulle cui responsabilità i paesi “ricchi” non hanno ancora fatto i conti.
Il libro, che tra l’altro affronta questo aspetto in particolare, tra realtà e romanzo, racconta le vicende dell’Associazione “Mosaico di popoli”, una ONG che aiuta gli immigrati a inserirsi nelle località di arrivo e a trovare la propria strada. Proprio sull’omicidio, nella metropolitana parigina, di un operatore dell’Associazione che ha scoperto le criminali collusioni tra trafficanti di esseri umani, ndrangheta, e corruzzione a livello di istituzioni, si innesta la parte poliziesca della storia, su cui Olita si mostra, come in precedenti libri, sempre particolarmente a suo agio.
Il libro pone la domanda: con i profughi, siano essi per ragioni politiche o economiche non fa differenza, si può essere gentili ai vari livelli e nel contempo fermi nel costruire politiche di riconoscimento, assistenza, inserimento in un’Europa stremata dalla denatalità e paradossalmente incarognita e in preda ad un odio incomprensibile?
Gli utopisti di cui si parla nel libro non sono né velleitari ottimisti né impotenti pessimisti, e agiscono nella prassi sul terreno del possibile, e Silvano Tagliagambe nella postfazione al libro richiama la metafora di Hegel dell’uomo (o forse della condizione umana?) necessariamente anfibio, perché vive la contraddizione attiva di vivere evitando di cadere da un lato nella tentazione di “di restare al di sopra della realtà, con l’utopia, dall’altro, al di sotto, con la rassegnazione”
La gentilezza si fa politica e ne può condizionare la pratica, e mi ha colpito un articolo di Slavoj Žižek, che in un numero di “Internazionale” (31 gennaio 2025, “Centouno anni senza Lenin “), richiamando il libro di Moshe Lewin nel suo L’ultima battaglia di Lenin (Laterza 1968) afferma “Ciò che colpisce per prima cosa è l’inaspettata enfasi di Lenin sulla gentilezza e la cortesia, cosa strana per un bolscevico incallito”. Vale a dire che Lenin, pur riconoscendo la natura dittatoriale del regime sovietico, nel famoso appello al gruppo dirigente ammoniva “Propongo ai compagni di pensare alla maniera di togliere Stalin da questo incarico e di nominare al suo posto qualcuno che, a parte tutti gli altri aspetti, si distingua dal compagno Stalin solo per una migliore qualità, quella cioè di essere più tollerante, più leale, più cortese e più riguardoso verso i compagni, meno capriccioso…”