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Giuseppe Genna: “History”, Mondadori, 2017 (recensione di Tonino Sitzia)

In una articolo del 1 luglio 2017, pubblicato nel suo blog, Giuseppe Genna si scagliava contro l’etichetta dei “lettori forti”, declinazione quantitativa facile per la pigra editoria italiana, che segue le regole del mercato e del consumo, blandisce i narcisi della lettura e non sposta di una virgola il vero problema del senso del libro oggi, nella contemporaneità. “Molta parte dell’editoria industriale richiede agli autori un abbassamento delle soglie di difficoltà e di ambiguità del testo, per quanto mi pare, è ben più che il principio di devastazione di un tessuto sociale: è l’esito stesso della devastazione. Chiunque abbia figli in età scolare sa perfettamente che il libro, per le nuove generazioni, ha perduto valore veritativo e ha subìto una fatale diminuzione di potenza ontologica”. “I libri -sostiene Genna- devono ferire, i libri devono ammazzare, i libri devono rendere conto dell’attrito del mondo e degli universali, i libri sono messia della verità e non della realtà, i libri devono arrendersi, i libri devono essere bruciati perché sono pericolosi. Appello al lettore: sii umano, non essere forte”.

Sembra un monito al lettore del suo “History”, pubblicato nel settembre del 2017. Libro difficile da afferrare e riassumere, apocalittico, visionario, molto corposo (527 pagine), ambientato “nell’anno del signore 2018”, con un infinita serie di rimandi a fatti che abbiamo vissuto nel corso del XX secolo e ai primi del XXI° da quando eravamo bambini, fino a quando siamo diventati adulti e  uomini e donne come siamo oggi. Per questo c’è bisogno della collaborazione del lettore, della sua pazienza, data la complessità della lingua scelta, a tratti oscura, ricercata, disperata e poetica: “Lettore!, che ti sei trascinato in un lungo viaggio integrato tra le secche della noia e della disconnessione elettrica, tra queste frasi eccessive e queste forme sconnesse, ardue da tollerare, che hanno approfittato di tutta la tua pazienza, e hanno eroso certe tue ore, dedicate alle grammatiche che sono state impegnate a costruirti attorno una gabbia di aria irrespirabile, qui non si respira, non esiste ossigeno ma soltanto mente, la mente non prende respiro, e non respira come la biologia insegna…è autistica…conserva male le narrazioni della storia, le fa incoerenti…”(pag. 384, capitolo “Appello al lettore”)

In questa incoerenza dichiarata, dove l’intreccio si perde in mille rivoli dei ricordi e della mente, c’è un protagonista? Oppure più di uno? Ci sono uno o più fili narrativi? Di certo c’è History, la bambina autistica, figlia di un magnate della finanza, che vive nel Tecnopolo “il palazzo del tycoon  installato alle porte della città. I governi riversano fiumane di denaro nei tecnopoli, in cerca del futuro: la mente artificiale, le tecnologie dell’infinitamente piccolo, la modificazione genetica. È nei tecnopoli umani che si sta elaborando il futuro. I tecnopoli umani sono uniti nel dare forma, nel fare emergere, nell’imporre il futuro della specie. Il futuro della specie è un abbraccio tra la biologia e la macchina. Sono le nuove nozze alchemiche: dai tempi antichi ci votavamo a questo: abbracciare le macchine…”

Lo scrittore, emarginato e inascoltato in questa Italia del 2018 “era del terziario avanzatissimo e globale, plausibilmente quaternario”, riesce ad  interagire con lei, lui che è autistico al mondo, per salvarla dalla presenza della Trista Figura, che nelle sembianze ricorda la Morte in “Il Settino sigillo” di Bergman, quella che, tutti i giorni, ci sta a fianco beffarda.

La bambina è oggetto di un esperimento di intelligenza artificiale, un  interfaccia elettronica, che prefigura il futuro, già ormai presente, di tutto il genere umano, assorbito dalle macchine, dalla tecnologia, dai media. Ed è, questo, un altro filone narrativo, su cui si innestano, come in un flusso di coscienza, rimando storici e filosofici. In questa regressione inarrestabile dell’umano nel non umano ci siamo tutti, e già la trasformazione era in atto quando il 12 giugno 1981 Alfredo Rampi veniva risucchiato nel pozzo di 60 metri di Vermicino, e noi con lui nelle diciotto ore della diretta TV, trasformati in macchine osservanti, le stesse della R4 rossa col cadavere di Moro, le immagini dell’esecuzione di Gheddafi a Sirte il 20 ottobre 2011, o ancora il corpo spiaggiato del bambino migrante nella costa turca.

La morte di Alfredo, diventato Alfredino nell’onda emotiva che tutti abbiano vissuto, è sempre presente nelle opere di Genna, vero archetipo della morte dell’infanzia nel contemporaneo. A questa tragedia Genna dedica uno dei suoi libri più importanti “Dies irae”. La cadenza terribile delle diciotto ore dell’agonia in diretta televisiva, si sovrappone, e forse lo esorcizza, ad uno dei periodi più bui della storia d’Italia, legato all’ascesa di Craxi, alle vicende di Gelli e della P2, di Calvi, di Berlusconi e della ascesa come costruttore della Milano 2, ma anche dalla figura di Pertini e dal sogno del secondo miracolo economico.

Man mano che si procede nella faticosa lettura di History, con una continua digressione tra passato e presente che è già futuro, il confronto uomo-macchina appare come un segno dei tempi, e con esso la scomparsa dei bambini e dunque del genere umano in quanto tale.

Quando, esausti, si arriva alla fine del libro, cercando di trovare una sintesi tra i diversi significati possibili, rifletto sull’esergo iniziale “Protagonista è la specie e la sua corsa occidentale”. Questa corsa sembra precipitare verso il nulla, in una regressione inesorabile. Nell’ultime due pagine quasi un epitaffio: “Non siamo più niente! Più niente”, e infine “Questo libro è scritto su lastre di oro mentale.

 

 

Recensione a cura di Tonino Sitzia

19 Giugno 2018

 

 

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