La rampa dei treni, la Bahnrampe, all’interno del campo di Birkenau dove, dal 1944, arrivavano i convogli dei deportati, come si presentava nel 1945
Le voci di Auschwitz
– Io sono morto subito, qui nel piazzale di arrivo, in questo luogo allora per me sconosciuto. Poi seppi di Auschwitz. Era il settembre 1943. Sono un ebreo ungherese. Appena sceso dal treno, dopo l’apertura del vagone piombato, mentre le SS con i loro cani urlavano i loro incomprensibili ordini, non ho capito subito che dovevo lasciare mia moglie alla sua fila mentre io avrei dovuto spostarmi in quella dei maschi. Non avrei dovuto abbracciarla?
Gli azzurri occhi di un ufficiale delle SS mi fulminarono con un colpo di pistola al cuore.
Ora ditemi voi: perché?
– Era il novembre 1943. Arrivai in piena notte, dalla madre Russia, dopo una settimana di viaggio. Dalla stretta finestrella in alto nel vagone si scorgevano, immerse nella nebbia, tante baracche e in un binario parallelo un altro vagone pieno di gente che come noi aspettava il proprio turno per l’apertura del convoglio. Tentammo di scambiarci qualche notizia, in quella babele di linguaggi e di dolore, ma vanamente, e tutti, nel tanfo di quei vagone angusto e promiscuo, ci portavamo dentro i nostri interrogativi.
L’indomani mattina fu aperto il vagone, uomini rapati e vestiti a righe, evidentemente prigionieri arrivati prima di noi, aizzati dalle SS, urlavano Schnell, schnell , Presto, Presto. Ci divisero in due schiere, uomini da una parte e donne dall’altra, per una prima selezione. Io fui allora fortunato, feci parte di quel 15% circa che all’arrivo fu ritenuto idoneo al lavoro. E gli altri? Solo più tardi imparai dall’odore di carne bruciata, e dal fumo dei crematori sempre accesi, quale era stata la loro sorte. Mi chiedevo, perché loro e non io? Resistetti per un anno, alle botte, agli appelli interminabili all’alba, ai lavori forzati, alla fame, poi quando ormai ero agli estremi, accettai di fare una doccia liberatoria. Giuro che, nonostante ormai fossi un häftling esperto, non sapevo cosa fosse lo Zyklon B. 2
– Io venivo dalla Transilvania nell’aprile del 1944. All’arrivo, con mia madre, mio padre, mia sorella gemella, fummo fatti scendere dal treno. Alcune persone già morte all’interno del vagone furono portate via, poi mio padre venne mandato nella fila di sinistra, noi con mia madre in quella di destra. Avevo solo cinque anni.
All’indomani seppi, da una donna che era nella mia stessa baracca, che mio padre era morto, e mentre ci stringevamo strette a mia madre, sentimmo l’urlo ripetuto delle guardie “Zwillinge, swillinge swillinge”. Cercavano gemelli, e mia madre, ignara del perché, ma convinta che forse ai gemelli sarebbe toccata una sorte migliore, ci segnalò alle SS. Così finimmo come conigli da esperimento nei laboratori del dottor Mengele. Ricordo i suoi guanti bianchi e gli stivali neri e lucidi, la sua curiosità per i nostri occhi: perché erano azzurri come gli ariani, se noi eravamo ebrei Rom? Cominciò il calvario delle iniezioni nelle pupille, le trasfusioni di sangue di altri gemelli, le febbri, i vomiti, i pianti e le urla di disperazione degli altri bambini. Poi, finalmente, una iniezione di fenolo al cuore, personalmente eseguita dall’angelo della morte, pose fine alle mie sofferenze, ma non alla mia pena. Cerco ancora, tra questi fiocchi di cenere, mia sorella, mia madre e mio padre, ma come faccio se siamo oltre un milione?
-Io ero un ebreo francese, sono arrivato a Birkenau nell’ottobre del 1944. Non so per quale casualità sono finito a lavorare nelle latrine dell’immenso campo. Qualche mio sciocco compagno aveva rifiutato l’incarico, e invece era una fortuna raccogliere gli escrementi degli altri. Nei terribili mesi di quell’inverno, io e gli altri addetti a quel lavoro stavamo nel tepore della baracca latrina, mentre fuori infuriava la tormenta. Niente marce estenuanti e lavori pesanti, niente botte dagli aguzzini, che non avevano voglia di trattenersi in quella baracca. A tutto si fa l’abitudine, all’odore nauseabondo, ai secchi che tracimavano lordandoci le misere scarpe e il logoro vestito a strisce. Poi qualcuno, roso dall’invidia perché un prigioniero distrutto dalla dissenteria mi prometteva un tozzo del suo pane, purché gli garantissi due turni in latrina, fece la spia ad un kapò. A pochi giorni dall’arrivo dei russi, incapace di resistere al freddo, e indebolito fino alle ossa, passai per il forno crematorio.
– Io non abitavo molto lontano da qui, sono di Cracovia, conoscete i tetti rossi delle sue cattedrali, le sue antiche piazze, la collina del Wawel, i mille negozi e laboratori artigiani?
Incastrato e quasi protetto da un’ampia ansa della Vistola, a sud della città vecchia, sulla riva sinistra, brulicava di gente e di affari l’antico quartiere ebraico del Kazimierz; vivevo tranquillo, rispettoso del mio lavoro e del mio credo, seppure non fossi ortodosso e non proprio assiduo frequentante delle numerose sinagoghe che vi sorgevano.
Nei primi mesi del ’41 le autorità tedesche fecero evacuare il quartiere, costruirono un nuovo ghetto dall’altra parte della Vistola, con tanto di filo spinato. Negli spazi aperti muri di tre metri con le cime arrotondate come lastre tombali, porte di entrata e coprifuoco. Fu un esodo in piena regola. Ricordo ancora i carretti con le masserizie, i materassi, le pentole, le sedie, i vecchietti e le vecchiette ingobbiti con i loro sacchi pieni di povere cose, i soldati tedeschi che, per divertirsi, fermavano gli ebrei ortodossi e tiravano loro le lunghe barbe, i bambini seri con i loro giochi.
La nuova casa, consegnata dal funzionario dello Judenrat, era di una stanza, per le famiglie numerose, due camere con uso cucina. Il tram per Cracovia attraversava il ghetto, sorvegliato in entrata e in uscita da garitte con le SS di guardia. Nel ghetto, con le stelle gialle al braccio a segnalare la nostra diversità, nonostante il sovraffollamento e le continue umiliazioni, continuammo, per quanto possibile, le nostre attività pensando che tutto sarebbe passato.
A poca distanza dal ghetto, sorgeva la fabbrica di Schindler, e in località Plaszớw, fervevano i lavori per la costruzione di un campo di concentramento. Io non lavorai mai per quel Giusto, fui di passaggio a Plaszớw, dove si moriva per nulla; la mia destinazione era Brzezinka, che ricordavo da bambino come il bosco delle betulle. I nazisti la chiamarono Birkenau. Voi non avete idea di cos’è l’inferno, io l’ho conosciuto.
Quale colpa mi portò ad essere gasato? Durante l’interminabile appello di quel mio giorno, mentre l’interminabile fila per cinque degli häftling della mia baracca, prendeva concitatamente forma, io, stanco e annebbiato, non rispettai l’allineamento.
-Ti che osservi le tonnellate di capelli ora in mostra nel Blocco n° 4 di Auschwitz ricorda che lì ci sono anche i miei. Ci tenevo tanto… erano parte della mia identità. Ragazza, erano belli quanto i tuoi. Lo sai che per ricavare tessuti dai nostri capelli le ditte tedesche pagavano 0.50 marchi al chilo? In poco tempo imparai a farne a meno; era la vita che volevo, e notizie di mio marito, che non vidi più dopo la concitata selezione al nostro arrivo. 4
Io facevo parte del Partito Socialista Polacco, le SS cercarono di eliminare per primi gli intellettuali e i militanti politici, per questo nell’estate del ’43 arrivai qui. Voi non ci crederete, ma con altri prigionieri di altre nazionalità cercammo di organizzare forme di boicottaggio e perfino un piano di ribellione. E’ vero, eravamo degli illusi, ma senza un ideale cos’è l’uomo? Come andò a finire? Le SS avevano un sesto senso per i ribelli, bastò l’atteggiamento titubante di uno di noi, e il giorno prima della rivolta che avevamo clandestinamente organizzato, ci portarono tutti fuori nel piazzale e ci fucilarono uno per uno.
Tonino Sitzia
Giorno della memoria 2015
(Il racconto è liberamente ispirato dai ricordi di un recente viaggio ad Auschwitz e a Cracovia e dalla lettura di “La creatura di cenere di Buchenwald” di Ivan Ivanji)
“La meditazione presuppone un atto di riflessione, di sospensione, di silenzio.
Da qui il tuo (il nostro) interrogativo a cui non si trova risposta”, scrivi nel
commento. Si, è così -non si trova.
E Paul Celan si suicida in Francia nel 1970 a vent’anni dalla fine della guerra.
E Primo Levi si suicida in Italia ancora dopo nel 1987.
E quanti altri, meno noti, reduci dall’orrore?
Già la giustizia!
“E’ inutile cianciare di giustizia, finché la più grande fra le navi da guerra
non s’infrange contro la fronte di un annegato”. Così Paul Celan in “La verità della poesia”
Puntuale questo tuo breve racconto, e comunque denso delle voci dei costretti ad una atrocità mai vista…
I nostri giorni, tutti i giorni che si susseguono, dovrebbero far posto alla ‘memoria di quell’accaduto’, alla memoria di quelle voci…
Ma una domanda ritorna, batte e mi ossessiona: è stata fatta giustizia? E’ stata fatta giustizia per
l’enormità del male arrecato? Quale giustizia per ogni singolo imprigionato e ucciso?
Questo interrogativo rimane sospeso e sconfortante.
Sospeso nella ‘Storia’ e nelle coscienze.
“Discant viventes mortuorum sorte”: “Imparino i viventi dalla sorte dei morti”. E’ la scritta che campeggia nel monumento/memoriale del campo di sterminio di Mauthausen.
Forse la giustizia consiste nella memoria, il “meditate che questo è stato” di Primo Levi. La meditazione presuppone un atto di riflessione, di sospensione, di silenzio. Da qui il tuo (e il nostro) interrogativo a cui non si trova risposta.
La shoah è l’indicibile e fu Adorno a sostenere che “Dopo Auschwitz, nessuna poesia, nessuna forma d’arte, nessuna affermazione creatrice è più possibile. Il rapporto delle cose non può stabilirsi che in un terreno vago, in una specie di no man’s land filosofica”; eppure Paul Celan (“La verità della poesia”, Einaudi, Torino 1993”), uno dei più grandi poeti del novecento, i cui genitori furono entrambi vittime della barbarie nazista, ha sostenuto che se l’uomo è parola, è la lingua che deve essere uno strumento anche per esprimere l’indicibile. Certo non è una poesia tranquillizzante, ma fratta, spezzata, rotta dal dolore.
“La lingua, essa sì, nonostante tutto, rimase acquisita. Ma ora dovette passare attraverso tutte le risposte mancate, passare attraverso un ammutolire orrendo, passare attraverso le mille e mille tenebre di un discorso gravido di morte. Essa passò e non prestò parola a quanto accadeva; ma attraverso quegli eventi essa passò. Passò e le fu dato di riuscire alla luce, ‘arricchita’ da tutto questo. / Con questa lingua, in quegli anni che seguirono, io ho tentato di scrivere poesie: per parlare, per orientarmi, per accertare dove mi trovavo e dove stavo andando, per darmi una prospettiva di realtà”. (P. Celan)
La lingua da lui scelta fu il tedesco (Celan era rumeno di lingua tedesca), quella degli aguzzini della sua adorata madre, che gli aveva insegnato ad amare la lingua di Goethe e Schiller.