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14 Ottobre 2024
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Paolino

LA MADRE

La madre di Paolino era stata ricoverata per analisi e accertamenti a seguito di forti dolori al basso ventre, da tempo avvertiti, me che ormai si erano fatti insopportabili. Giovanni, il figlio più grande a cui ero legato da amicizia di vecchia data, mi raccontava di come era cominciata la spola dei figli dal paese all’ospedale, dell’incrociarsi dei parenti dei ricoverati, ciascuno col proprio cruccio,  nella corsia del reparto, della difficoltà di sentire i medici per chiarimenti sullo stato delle cose, dell’affanno che tutti hanno provato in questi particolari frangenti della vita, quando si intuisce che qualcosa di grave incombe e non sai come governarlo.     

Giovanni quasi per esorcizzare il dolore e per condividerlo, mi raccontava di come bastasse guardare sua madre in quegli occhi azzurri e luminosi per capire che già sapeva tutto, eppure lo interrogava e cercava di fagli dire ciò che non voleva.  In quei momenti di complicità e di sincerità, come tutte le madri della generazione degli anni 30 del secolo scorso, parlava in sardo, la sua lingua madre, quella dei propri genitori e paesani, quella che lei usava sempre con suo marito buonanima, quella che usava con le sue amiche d’infanzia e che ancora frequentava …”Ita ndi naras o Giovanni, mi parit ca seu arribada  a su capolinea…” – Cosa ne dici Giovanni? Mi sembra che sono arrivata al capolinea…- Lui liquidava la domanda con una battuta, sempre in sardo “Ma lassa perdi…pensa a sanai…”- Ma lascia stare, pensa a guarire -…e lei “Naramì sa beridadi, tengu cussa maladia disgraziada e no tengu meda tempus ancora…”.  – Dimmi la verità ho quella malattia disgraziata e non mi resta molto tempo…-  Giovanni tagliava corto: “Stai tranquilla, non farti venire cattivi pensieri, stanno facendo le analisi, poi se necessario ti opereranno e riprenderai la tua vita di tutti i giorni…”

In quelle passeggiate nel corridoio del reparto di gastroenterologia, chiacchieravano come se quelle mura non esistessero, come se il tempo rallentasse, con una confidenza che raramente avevano raggiunto prima, nella forsennata vita di tutti i giorni. Si stancava facilmente, il passo era rallentato, e teneva una mano in pancia come se dovesse sopportare un peso, e poi, quando non ce la faceva più gli diceva “Immoi mi deppu croccai, sei troppu fadiada, accumpangiamì in sa stanza” – Adesso mi devo coricare, sono stanca, accompagnami in camera…- Ok, ora ti saluto e ci vediamo in questi giorni “Tenidì a contu”- Riguardati, ciao –

Giovanni: “Qualche volta, mi capitava, nelle visite a mia madre in ospedale, di arrivare con qualche minuto di anticipo, e di osservarla mentre dormiva…muoveva le labbra bisbigliando parole incomprensibili, le dita delle sue mani si muovevano con la grazia di chi aveva da sempre cucito, come se quel gesto meccanico nel dormiveglia facesse parte del suo essere. Mi aveva raccontato più volte che cucire era una sua passione sin da piccola, e infatti con le sue cugine ormai adulte, che abitavano in un paese vicino, si ritrovava spesso per cucire, rammendare, sistemare orli, fare centrini con l’uncinetto. Tra quelle cugine una in particolare, Silvia, faceva da maestra, pur non avendo mai fatto la sarta di professione. Il massimo dei loro lavori di gruppo era il cucire gli abiti da sposa, e allora lei, Silvia la maestra, tirava fuori dal suo forziere tutta una serie di modelli che mostrava ai clienti che si rivolgevano a lei e di cui si fidavano”. Giovanni ricordava che quando un maschio, un marito o un fidanzato o un cugino o amico, lui stesso, si affacciavano sulla porta della stanza del cucito, si fermavano  in piedi sull’uscio, timorosi di varcare la soglia di quel luogo dove si coltivavano segreti e riti ancestrali.     

Al suo risveglio la madre con aria di rimprovero spesso gli diceva “De meda ci ses? Poita non mi nd’has scidau? – Da molto ci sei? Perché non mi hai svegliato?”  E lui:- Stavi dormendo così bene! Non volevo disturbare…figurati che nel sonno muovevi le mani come se stessi cucendo…- E lei “Ma candu mai? Mi ses pighendi in giru…accabadda” – Ma quando mai! Mi stai prendendo in giro, smettila…”

Non erano passati dieci giorni dal suo ricovero quando i medici convocarono Giovanni, sorelle e fratelli,  per comunicare loro che il tumore al colon era in stadio avanzato, che era inoperabile, e che la madre poteva morire da un giorno all’altro o al massimo dopo qualche mese. Era autunno inoltrato e tutti speravano che almeno quella malattia “disgraziada”, come diceva lei, avrebbe consentito di trascorrere l’ultimo natale tutti insieme.

Lei, che era al corrente del colloquio con i medici, li aveva presi in disparte, e rivolgendosi a Giovanni disse con aria serena e ferma “Ascurta o Giovanni, tui ca ses su fillu mannu…appu giai cumprendiu tottu…seu arribada a su capolinea…” – “Ascolta Giovanni, tu che sei il figlio maggiore…ho già capito tutto…sono arrivata al capolinea” – Ma lascia perdere con questo capolinea…i medici dicono che potrai tornare a casa e curarti in tranquillità…- “O Giovanni, una cosa ti ollu nai…candu deu no ci ap’essi prus labai de aggiudai a Pauleddu…no ddu depeis lassai a solu…est cussu ca ndi tenit abbisongiu prus de tottus…mi ddu depis promitti…- O Giovanni, ti voglio dire un cosa…quando io non ci sarò più cercate di aiutare Paolino…non dovete lasciarlo solo…è quello che ne ha bisogno più di tutti…me lo devi promettere – “Te lo prometto, certo, ma vedrai che ci sarai anche tu ad aiutarlo, come hai sempre fatto…” E lei, quasi un saluto definitivo “Deus bolit!” “Se Dio vuole!”

IL FIGLIO

Paolino era suo fratello minore… Lui fu quello che pianse di più, e tutti quelli che si avvicinavano per le condoglianze lo consolavano con qualche buffetto sulla testa e con poche parole in sardo, perché la lingua dei padri riesce ad esprime meglio i sentimenti estremi, quelli del dolore e della gioia. “Faidì coraggiu o Paoleddu…”, “No ti depis preoccupai…ci funti is fraris tuus…”Mamma tua hat fattu de tottu po tui, de candu ses nasciu finzas a oi” – Fatti coraggio Paolino…non preoccuparti…ci sono i tuoi fratelli…tua madre ha fatto di tutto per te…da quando sei nato fino ad oggi…”

Era proprio così. Quando era nato, cinquantadue anni prima, Paolo era un bambino bello e paffutello, come tutti i bambini appena nati, eppure qualcosa non andava…già dopo i primi mesi i suoi movimenti erano rigidi e contratti, le manine chiuse come in uno spasmo, le dita dei piedini piegati in avanti e ruotanti verso l’interno, gli occhi faticavano a seguire gli oggetti che gli si presentavano, sembrava che non riuscisse a controllare i muscoli del collo, tanto che la piccola testolina faticava a restare eretta, non riusciva a stare in posizione prona. E che dire delle difficoltà di Paolino a pronunciare i primi gorgheggi e balbettii, i primi simpatici ghi -goo, ah, ahi…o i bisillabi che denotano il primo orientamento nel mondo… “ma-ma” e “pa-pa”? Ai venti mesi Paolino non stava in piedi e i primi passettini erano per lui impossibili.

La madre, senza essere una pediatra, sapeva che quel bambino, il suo bambino, l’ultimo dei cinque, non era normale, ma è proprio sul concetto di norma che cominciò a scontrarsi, dapprima in silenzio e via via, nel corso degli anni, in modo sempre più palese perché la norma può diventare un recinto in cui ti chiudono, un muro invalicabile difficile da scavalcare, una barriera che ti separa dagli altri bambini, poi dai ragazzi e, man mano che cresci, dagli adulti. “E ita tenit su pippiu?” – le dicevano  le amiche – “Ma su pippiu est normali?” “Parit maladiu…” “E su dottori ita narat?”…”Ma cos’ha il bambino?” “Ma il bambino è normale?” “Sembra malato” “Il dottore che dice?”

“Su predi”, “Su dottori”, “Su segretariu, Su sindigu”, Il dottore, il prete, il segretario comunale, il sindaco”, erano le autorità del paese. Il prete, di fronte alla palese anormalità di Paolino, invocava la preghiera e la rassegnazione. “I figli sono un dono Dio” “Bisogna accettare il volere di Dio”, “A donniunu sa cruxi sua”, “A ciascuno la sua croce”…  La madre era molto devota, e seguiva i consigli: pregava molto ed andava in chiesa, ma sapeva che non bastava. “Su dottori” godeva dell’oscuro potere della scienza, lui “fiat studiau”, “era studiato”, ed erano pochi allora in paese ad averlo fatto. La sua figura era sciamanica, perché aveva il potere di leggere tra i misteri della vita e della morte. A quei tempi non c’era il pediatra che affiancava il medico di medicina generale e fu proprio lui  a suggerire “Innoi nci olit una visita specialistica in s’uspidali” ”Qui ci vuole una visita specialistica in ospedale”.

A Cagliari c’era la famosa “Clinica Macciotta”, il più importante ospedale pediatrico della Sardegna, che era stato fondato nel lontano 1938, diciotto anni prima della nascita di Paolino. Fu in quel luogo di dolore e di speranza, tra i diversi reparti della pediatria infantile, con le suore arcigne che andavano e venivano, nell’odore tipico del disinfettante, che venne fatta la diagnosi, quasi una sentenza definitiva e irreversibile: Paolino era affetto da Tetraparesi spastica. I medici spiegarono, con scientifica freddezza, che si trattava di una Paralisi Celebrale infantile, e nel referto scrissero quanto risulta nei manuali di medicina che trattano dei disturbi neurologici in età infantile “Colpisce primariamente le aree del cervello destinate al controllo del movimento e della postura; pertanto i bambini con PC possono presentare problemi nelle abilità motorie (ritardo nelle tappe di sviluppo motorio, come stare seduto senza appoggio, rotolare, strisciare e gattonare, raggiungere e mantenere da soli la posizione eretta, camminare), debolezza muscolare, rigidità, lentezza, difficoltà di equilibro e coordinazione”.

I medici dissero che “Le cause potevano derivare da problemi in gravidanza o dal parto al momento della nascita, che ogni bambino aveva la sua storia e che, pur in presenza di un danno permanente, tuttavia, con opportune strategie riabilitative il bambino poteva essere recuperato fino al massimo delle sue potenzialità”. Questi cenni alla gravidanza, al parto, alla nascita, pesavano nei pensieri della madre di Paolino, e Giovanni mi raccontava che a volte trapelava una certa velatura nei suoi occhi, come per un oscuro senso di colpa, chissà…certo che con lui e i fratelli non ne faceva cenno, ne parlava invece con suo marito nei loro misteriosi bisbigli notturni.  

LA LOTTA

Quando la madre morì, Paolino aveva appena compiuto cinquantadue anni e nessuno, tranne lei, suo marito buonanima, i fratelli e qualche amico o parente vicino, avrebbe scommesso che sarebbe arrivato a quell’età, per come era messo fin dalla nascita: che avrebbe camminato, avrebbe giocato, frequentato le scuole, avrebbe trovato un lavoro, si sarebbe innamorato, come tutti, avrebbe acquisito un carattere autonomo e indipendente. Giovanni mi ricordava, e lo ricordavo bene anch’io, delle tante volte che era venuto con noi, con la nostra cricca, in vacanza e in campeggio, allo stadio per tifare Gigi Riva e i rossoblù scudettati.

Ma prima di arrivare a tutto questo, sempre Giovanni a ricordare “Ci sono voluti anni di cure, di fisioterapia, di trattamenti riabilitativi, sacrifici, ma soprattutto di lotta contro le barriere e i pregiudizi”.
Certo che lui ci aveva messo del suo: ricordo e sono testimone di come fosse tenace e prepotente, a volte…”ma la ca ses barrosu”- dicevamo noi e i molti che lo conoscevano…”Est fattu a modu suu” “È fatto a modo suo”. Sarà stata una corazza, che col tempo si era rafforzata, per difendersi in un mondo dove per galleggiare devi competere, oppure un sentimento di orgoglio “po no si fai ammeschinai” “per non farsi compiangere”. A volte invece era più conciliante, disponibile al dialogo e al sorriso.

Non tutti conoscono l’etimologia della parola spastico: essa deriva dal greco e significa spasmo, contrazione dei muscoli volontari. Non siamo perfetti, e ho sempre pensato che la vita in fondo procede appunto per spasmi, per cadute e risalite…ognuno ha la sua selva oscura da cui uscire, e per alcuni meno fortunati certo l’inferno è più duro da attraversare…Ho imparato molto, frequentando la famiglia di Paolino, ascoltando i racconti di Giovanni, che spastico non vuol dire “struppiau”, “guastu”, “mali cumbinau”, “sciadau” “storpio”, “guasto” “mal preso” “poverino”…come spesso si diceva in paese, in tutti i  paesi dove vivevano persone che venivano derise ed emarginate, e anche etichettate come “Su scimpru de sa bidda”, “lo scemo del villaggio”.  Le risalite sono faticose…e, quando può essere utile, anche il distacco dai propri cari, e dal proprio ambiente, dove bene o male pian piano sei accettato, e pian piano anche adottato.

All’età di dieci anni il salto oltre il mare, lo strappo. Nella difficoltà di frequentare la scuola, nella lentezza nei progressi della sua condizione fisica la madre e il padre decidono di mandare Paolino in un istituto in continente, specializzato nel recupero di bambini affetti da sindrome spastica. Ricordo bene quei momenti, con Giovanni se ne era parlato… Quanto gli sarà costato il distacco? A chi parte e si vede solo in un ambiente nuovo e sconosciuto, a chi resta e si chiede se è stata una scelta giusta, a chi resta e deve rispondere alle domande di quanti chiedono “E poita d’has mandau in continenti, sciadadeddu” e la madre a rispondere pronta “Po ddu salvai, po ddu migliorai”. “Perché l’hai mandato in continente? Poverino…” e la madre a rispondere “Per salvarlo, per migliorarlo…”

Giovanni racconta di come il distacco abbia pesato anche in lui e nei suoi fratelli…È lì che Paolino ha frequentato per cinque anni le scuole elementari. Quanta fatica per usare le mani! Come è difficile da decifrare la sua scrittura! E ogni volta che i suoi hanno varcato il mare è una festa il riabbracciarsi, il camminare in quella meraviglia della  piazza del Duomo di Firenze. Si perché Paolino, con le sue pesanti scarpe ortopediche, migliora anche il suo incedere, il collo è eretto, la parlata si fa più fluida.

Al suo ritorno a casa, dopo sei lunghi anni, è come un nuovo inizio. Per la strada lo fermano e gli chiedono, come fosse un emigrato che fa ritorno al suo paese dopo anni di assenza. “E cumenti stais? Ses troppu togu!” “E ita contas? Non mi neris ca ses diventau tifosu de sa Fiorentina?” “No ci possu crei, t’anti torrau a nou…” “E come stai? Sei troppo togo” “E cosa racconti? Non dirmi che sei diventato tifoso della Fiorentina?” “Non ci posso credere! Ti hanno rimesso a nuovo!”.

Son passati molti anni ormai, Paolino è invecchiato, come noi del resto, anzi con noi, e se guardo indietro nel tempo, provo come una vertigine… “Ma ci pensi o Giovanni: quanta strada si è fatta!” E Giovanni “Nei miei dormiveglia tormentati a volte capita di rivedere mia madre che, con aria severa e serena, mi chiede “E ita parit? Tottu beni?” “E cosa sembra? Tutto bene?” Ed io “Tottu beni, tranquilla…

Tonino Sitzia

(Il racconto è stato segnalato con Menzione e Pergamena al Concorso per racconti dedicati all’handicap di Massa Carrara nel 2022)

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1 commento

  1. Complimenti Tonino per aver affrontato, con delicatezza e con stile neutro, il tema complesso e non facile della disabilità, regalandoci un testo che emoziona e fa riflettere.

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