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È accaduto, e potrebbe riaccadere?

Siamo negli Stati Uniti ai primi decenni dell’800, in Louisiana, New Orleans, nel delta del Mississippi. La città, fondata nel 1718 da J. B. Lemoyne de Bienville, fu chiamata Nouvelle Orléans  in onore del principe Luigi Filippo II d’Orléans, e venne acquisita dagli Stati Uniti nel 1803 dalla Francia, quando Napoleone decise di disfarsi di quel territorio, lontano e ingombrante, di 2,5 milioni di kilometri quadrati per una cifra di 15 milioni di dollari.  Era il territorio della Louisiana francese. Qualche storico ritiene che quello fu uno degli affari più redditizi e importanti nella storia degli Stati Uniti.

Il porto di New Orleans era un pullulare di traffici, merci, uomini e donne, di steamboats, i piroscafi a vapore sul delta, crocevia degli scambi delle materie prime del cotone e delle canna da zucchero, le cui piantagioni dovevano la loro floridezza al sistema della schiavitù, al lavoro dei neri, la gran parte discendenti della prima ondata della tratta degli schiavi dall’Africa, introdotta dai francesi in Luisiana già dai primi anni del 1700.

Il triangolo dello schiavismo

In questo crogiuolo di umanità, tra i fumi delle paludi, e le immagini che oggi scorrono in bianco e nero nei nostri cervelli con le sequenze dell’immaginario di funerali in musica, spirituals e gospel, jazz delle origini, vicissitudini narrate da Mark Twain, si svolge l’avventura del nostro eroe e di quanti lo incrociarono  in  quel periodo. Egli potrebbe chiamarsi Gustav, perché è un immigrato tedesco, oppure John o Jim, uomini di colore che vivono le sue stesse vicende.  

Nei decenni che precedettero la Guerra Civile Americana, altrimenti nota come Guerra di Secessione (1861-1865), che ebbe tra le sue cause proprio il tema della schiavitù e della sua abolizione, la Louisiana è profondamente schiavista e razzista. In quegli anni di capitalismo avanzante la vita è dura e quasi impossibile per i neri, ma anche gli immigrati europei se la devono giocare per integrarsi. In quelle contrade formicolanti di lavoro e di sogni americani  imperversava la febbre gialla, si contarono ventidue epidemie gravi nell’arco di sessant’anni, con oltre 150.000 morti.

Il virus, trasmesso dalle zanzare Aedes, era mortale per il 50% delle persone infettate, ed era spaventoso per i sintomi e per il decorso: dolori muscolari, mal di testa e di schiena, poi nel giro di pochi giorni, vomito di sangue nero color fondo di caffè, febbre alta, danni al fegato, da qui il colore giallo degli occhi in chi ne è vittima, fino alla morte. Nella gerarchia delle diseguaglianze, razziali, etniche, economiche, di genere, si innescò anche quella immunitaria e i nostri Gustav, John e Jim ne furono protagonisti.

Quando Gustav, siamo attorno agli anni ‘30 dell’800, si presentò per essere assunto in una fabbrica di imballaggi di cotone a New Orleans come contabile, avendo maturato tale esperienza lavorativa in Germania, si vede rispondere:

– Ma tu sei acclimatato o no? – Lui cascò dalle nuvole

– Non so di cosa parla…

– Hai contratto la febbre gialla?

– No

– Perché per noi un lavoratore immunizzato è un investimento…non possiamo rischiare di assumere persone che potrebbero da un momento all’altro ammalarsi…ne andrebbe della produttività e anche del buon nome dell’azienda…

Gustav, che era di intelligenza pronta, cominciò ad orientarsi in quella strana società, capì perché era difficile per lui avere un’assicurazione, oppure i premi erano esagerati, era difficile avere crediti dalle banche, e anche cercare una compagna e sposarsi non era facile. Tanto valeva, pensava, fare come molti immigrati come lui, che si ammassavano nei sobborghi malfamati e malsani per infettarsi, magari sdraiandosi a fianco di qualche amico morto di febbre gialla, così da immunizzarsi, trovare più facilmente lavoro e avanzare nella scala sociale…era come alla roulette russa, un giocare con la fortuna e con la morte.

Essere immunizzati era una pura casualità, non è che il virus facesse distinzioni fra bianchi e neri, e quando John e Jim scoprirono di essere immuni, si ritennero fortunati, si fa per dire: nella disgrazia di essere neri, discendenti neanche tanto lontani degli schiavi che erano stati venduti come merce nel nuovo mondo,  poterono lavorare per i loro padroni che se ne stavano tranquillamente a casa, “distanziati” dicevano, e quando venivano scambiati, il loro valore, in quanto immunizzati, raddoppiava. E non è che potessero contrattare il salario, in quanto merce immunizzata, no, quello lo decidevano sempre i padroni.

Discutendo con Gustav, Jim e John sostenevano che almeno lavoravano, ma di avanzare nella scala sociale, neanche a parlarne e, amaramente, ragionavano sul fatto che la febbre gialla per i padroni era diventata rosea…e le diseguaglianze tra ricchi e poveri aumentavano. Raccontavano di come tanti come loro morivano come mosche, non avevano soldi  per le cure mediche, ma le autorità non ne volevano sentire di provvedere con adeguare politiche di quarantena, di assistenza o di tasse per la sanità. I poveri si dovevano acclimatare, i ricchi si potevano curare e stare a casa.

Così era la storia nella Louisiana dei primi dell’800.

Mentre ripensavo a quel remoto passato, e senza un ragionato motivo data la differenza tra la febbre gialla e il coronavirus, un brivido mi corre lungo la schiena, l’immagine delle selezioni ad Auschwitz, quando venivano scelti i più adatti al lavoro nei campi…un’associazione mentale impropria e irrazionale, solo un cattivo pensiero frutto delle allucinazioni di questi tempi.

 

 

(Racconto liberamente tratto dalla lettura dell’articolo “Il privilegio dell’immunità” della storica statunitense Kathryn Olivarius della Stanford University, apparso su Internazionale del 30 apr/7 maggio 2020)

 

Tonino Sitzia

20 maggio 2020

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