23 Aprile 2024
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L’ultimo rigore di Faruk. Una storia di calcio e di guerra di Gigi Riva, Sellerio editore, 2016 – Recensione di Tonino Sitzia

L’arbitro gli aveva consegnato il pallone e lui, ripetendo un rituale scaramantico, se lo era rigirato più volte tra le mani prima di sistemarlo nel dischetto. Il pallone sembrava docile e leggero, come altre volte. Non si era posto le domande filosofiche se il rigore sia un atto creativo, legato all’ispirazione di un momento, oppure è frutto di metodo, di calcolo, di disciplina, o addirittura di procedure tramandate, quali non guardare il portiere, sapere da subito su quale angolo indirizzare la palla, preferibilmente tenendola rasoterra, essere rilassati ma contemporaneamente decisi.
Capita a volte che un gesto apparentemente semplice diventi terribilmente complesso: il pallone si fa pesante, la porta, di 7,32 metri di larghezza per 2,24 di altezza diventi piccola, le braccia del portiere si allunghino a coprire tutto lo specchio, gli undici metri sembrano triplicarsi.
Non so se Faruk Hadžibegić, ultimo capitano della nazionale jugoslava unita, prima del disfacimento e della disintegrazione della Repubblica Socialista Federale fondata da Tito, pensasse tutto questo il 30 giugno 1990, quando al comunale di Firenze, alla fine dei tempi supplementari dei quarti di finale dei Mondiali di calcio, fu chiamato a calciare il rigore decisivo contro l’Argentina di Maradona. Era il capitano, l’uomo di maggior esperienza, e non si tirava indietro di fronte alle responsabilità.
Di sicuro non prevedeva che il suo errore dal dischetto, non solo avrebbe eliminato la Jugoslavia dal mondiale, ma sarebbe diventato uno dei tanti segnali premonitori di una tragedia che, a dieci anni dalla morte di Tito, avrebbe portato alle guerre balcaniche degli anni ’90, a quella terribile sequenza di fatti, misto di nazionalismi e odio etnico e conseguenti pulizie, di stragi, vendette, bombardamenti, fosse comuni, cecchini che sparano dalle colline o dai tetti degli hotel, con un bilancio, in termini di vittime, di oltre duecentomila morti e con ferite ancora oggi non del tutto rimarginate.
Pochi giorni prima, il 26 giugno, la Jugoslavia, guidata da Ivica Osim, che tutti chiamavano “il professore”, per via della sua laurea in matematica o anche “l’orso” per la sua severità, aveva eliminato negli ottavi di finale la Spagna di Luis Suarez. Osim è figura leggendaria dello sport balcanico. Poco propenso a farsi incasellare nelle divisioni etniche, religiose e nazionaliste, si è sempre dichiarato jugoslavo, e fecero clamore, nel 1992, le sue dimissioni da allenatore della nazionale per protestare contro la guerra e per solidarietà verso a sua città natale, Sarajevo, che era la città dove anche Faruk Hadžibegić era nato.
In quei giorni in tutte piazze della Jugoslavia si festeggiava per la nazionale, da Belgrado a Zagabria, a Spalato, a Sarajevo, In quella nazionale giocavano serbi, bosniaci, montenegrini, croati, sloveni. Non passeranno due anni e in quelle stesse piazze o stadi, ultras si fronteggeranno in opposte tifoserie come nella guerra che si combatte sul terreno della politica e del potere, pilotati da burattinai del terrore, quali Radovan Karadžić, lo psichiatra poeta, il boia di Sebrenica, che era lo psicologo della FK Sarajevo, o Franjo Tudjman, condannato per genocidio da Tribunale dell’Aia, che fu il primo Presidente della nuova Croazia indipendente, ma prima ancora presidente del Partizan di Belgrado, o Slobodan Milošević, che si servì di Željko Ražnatović, noto come «la tigre Arkan», agente segreto della polizia jugoslava per trasformare l tifoseria della Stella Rossa di Belgrado in una banda armata al suo servizio.
La politica e il calcio, la politica e lo sport. Gigi Riva, giornalista dell’Espresso, omonimo del fuoriclasse del Cagliari, e autore dell’interessantissimo L’ultimo rigore di Faruk. Una storia di calcio e di guerra, ricorda come il calcio soprattutto, ma tutti gli sport più in generale, possono essere usati per fini propagandistici.” Proprio per la sua popolarità il calcio è sempre servito al potere come strumento di propaganda. Basti pensare all’uso che Mussolini fece dei trionfi del 1934 e 1938, o a come i generali argentini sfruttarono il Mondiale in casa del 1978, durante la dittatura. Oppure, ai giorni nostri, a come lo Stato Islamico abbia deciso di colpire lo Stadio di Francia durante una partita per amplificare il suo messaggio di terrore”.
Nel libro si raccontano vite e destini individuali e, come capita a ciascuno di noi, un episodio può riaffiorare come occasione mancata, come possibilità che non è stata colta con conseguente rimorso che si affaccia dal profondo della coscienza, o evento involontario o indipendente dalla nostra volontà. Nel caso di Faruk l’episodio si riaffaccia a 25 anni da quel giugno del 1990. Sulla soglia dei 60 anni Faruk, che vive stabilmente in Francia, in uno dei suoi viaggi di ritorno nella sua Sarajevo, passando da Belgrado, nella capitale della Serbia che un tempo fu la sua capitale, al controllo dei passaporti, il poliziotto, in un primo tempo arcigno, poi sorridente gli fa “Ah, se lei avesse segnato quel rigore! Forse cambiavano i destini del Paese”.

Recensione di Tonino Sitzia

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