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2 Dicembre 2024
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“Exit west” di Mohsin Hamid, Einaudi 2017 – Recensione di Tonino Sitzia

“In una città traboccante di rifugiati ma ancora perlopiù in pace, o almeno non del tutto in guerra, un giovane uomo incontrò una giovane donna in un’aula scolastica e non le parlò…per molti giorni”
Già da questo intrigante incipit siamo orientati verso il luogo da cui partiranno le vicende narrate, una città alle prese con tanti rifugiati, teatro di una guerra che incombe, due giovani come protagonisti.
Lui si chiama Saeed e lei Nadia. Lui ha una barba corta e ben curata, lei una lunga tunica nera che la copre fino al mento. Saed lavora presso un’agenzia specializzata in cartellonistica pubblicitaria, Nadia in una compagnia di assicurazione. Due ragazzi come tanti nel mondo, che vivono, si incontrano, si innamorano, fumano gli spinelli, vanno al cinema, leggono libri e sognano di viaggiare.
Lui è molto religioso, come i suoi genitori che ogni sera recitavano le loro preghiere, e non avevano mai fatto sesso prima del matrimonio, lei è molto libera, è andata via da casa per vivere da sola, e già in quella città è una provocazione, poi va in giro in motocicletta e invece del velo porta il casco. Quando dopo i primi approcci lei vuol fare l’amore, lui rimanda tutto a dopo il matrimonio. “cazzo stai scherzando?” dice lei. Eppure si amano comunque. Il problema è che questa loro normalità è segnata dalla geografia e dagli eventi che a poco a poco trasformano la città in un intricato dedalo di scatole cinesi, rifugiati che cercano spazi nelle tende improvvisate a ridosso delle case, nelle piazze o nelle aiuole spartitraffico, check point della polizia e poi dell’esercito, e poi ancora la violenza che si manifesta in forma di esplosione di un camion carico di esplosivo. Dapprima non ti riguarda, poi si viene a sapere che tra le ottantacinque vittime fatte a pezzi c’è il cugino di Nadia, di cui non rimane che un pezzo di braccio e la testa, lui che era emigrato ed era diventato medico e che tornava periodicamente dai genitori.

Il cielo è punteggiato da coppie di elicotteri che con il loro brusio di mosconi e con il loro carico di soldati armati controllano quanto succede in terra. Nella città in poco tempo i miliziani scesi dalle colline occupano interi quartieri, impongono la loro legge che si sovrappone a quella del governo che bombarda le loro postazioni e impone il coprifuoco notturno. I morti, spesso vittime casuali della guerra in atto, trovano sepoltura dove capita, in un cortile o in un terreno abbandonato. I cellulari non funzionano più. Le notizie che a fatica si sentivano dalle radio a onde corte, parlavano di quei luoghi, i loro luoghi, dove era in atto una crisi “di portata globale.”

Ora la guerra, quella guerra così diversa da tutte le altre, entra nelle case: le finestre, che prima portavano luce e curiosità al mondo esterno, sono pericolose tra il fuoco incrociato dei gruppi in lotta, mentre le porte, vere metafore del libro, possono nascondere la morte o la speranza. Cosa c’è dietro il buio di una porta che si apre o si chiude all’interno di una casa o in un vicolo polveroso? Seguendo le indicazioni di un amico Saeed e Nadia cercano un tipo, un agente che procura lasciapassare per fuggire dall’inferno. Hanno appuntamento in un rudere di un centro commerciale squarciato dalle bombe, all’interno di una delle porte non ancora controllate dai miliziani. Lui con la corta barba “in conformità alle regole sulle barbe”, e lui con i capelli corti “in conformità alle regole sui capelli corti”, rasentando i muri e attraversando i quartieri ormai in mano ai miliziani che li dominano con controlli ed esecuzioni sommarie, consegnano la caparra per il viaggio.
Salutano il padre di Saeed, che li incoraggia a partire ma si rifiuta di seguirli perché “qui è sepolta tua madre”. In una notte al buio e al freddo attraversano il mare, ed era vero che il passaggio era un po’ come la morte e un po’ come la nascita. Si ritrovano tra centinaia di persone come loro, in una babele di linguaggi, alcuni parlano la loro lingua. Ammassati ai piedi di una collina scoprono di trovarsi nell’isola greca di Myconos: dalle tende rabberciate, dalle taniche di benzina con fuochi accesi, dagli occhi insonni, capiscono che quello è un campo profughi, dove ognuno sopravive per giorni e per mesi in attesa che si apra una porta verso altre mete, la Germania, l’Inghilterra, la Svezia.

I due giovani vivono la loro odissea: c’è sempre qualcuno che apre le porte del passaggio da un luogo all’altro: così si ritrovano a Londra, laddove in diverse parti della città vi sono vecchi palazzi occupati abusivamente da gente come loro, si vedono tende in Hyde Park e in Kensington Gardens. Saeed e Nadia si rendono conto da subito che nella capitale inglese la loro condizione è simile a quella di Myconos: i nativi radicali e la stampa locale, i social network e la televisione, parlano di invasione, la polizia gira armata attorno ai campi profughi, droni ed elicotteri sorvegliano dall’alto l’evolversi delle vicende, il governo consente l’azione dei gruppi umanitari che supportano i profughi con medicinali e cibo. La tensione è alle stelle. Alle ricerca di una quotidianità perduta Saeed e Nadia lavorano, lui in una ditta che costruisce strade, lei in una squadra che posava tubature per fibra ottica, i loro discorsi si sono affievoliti, come il loro amore, finché, all’improvviso, lei propone di partire di nuovo. Da una porta vicina alla loro precaria stanza si parla dell’isola di Marin sull’oceano Pacifico, non lontano da San Francisco.
Forse lì, in quella collina sospesa tra cielo e mare, dove hanno costruito la loro nuova baracca si potrà ricominciare. Nativi veri e propri non ne esistono, o meglio quei pochi rimasti sono stati sterminati anni fa, altri lo sono per modo di dire perché i loro avi provengono dalla Gran Bretagna, altri ancora sono figli dei figli degli schiavi dall’Africa. E tutti raccontano le loro storie e nelle storie ci riconosce perché ci sono parti di noi stessi.

E un giorno i due protagonisti potranno raccontare del loro mondo tormentato quando “la gente fuggiva da dove si trovava, da pianure un tempo fertili e ora screpolate dalla siccità, tra villaggi costieri minacciati dagli tsunami, da città sovraffollate e campi di battaglia insanguinati, e fuggiva da altre persone che in alcuni casi aveva amato, come Nadia fuggiva da Seed e Saeed figgiva da Nadia

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