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13 Dicembre 2024
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Con l’ignoranza non si mangia!

C’è chi pensa, purtroppo anche tra i politici che ci governano, che il problema della dispersione scolastica in Sardegna e quindi della disoccupazione, si debba affrontare rinforzando il sistema della formazione professionale. Perché – dice chi la pensa così – è “meglio uno spazzino felice che un avvocato frustrato”. Coerente con queste teorie la convinzione che ci sarebbero in Italia, e in Sardegna, troppi laureati e per di più male assortiti a causa di un sistema universitario che si ostina a sfornare lavoratori non richiesti dal mercato. Convinzioni del genere risentono evidentemente di una lettura superficiale della realtà che scambia le cause con gli effetti. E per di più, non riuscendo a individuare il problema alla radice, analisi di questo tipo contribuiscono, nelle soluzioni che propongono, a cristallizzare le inaccettabili diseguaglianze sociali che, delle vere cause, sono oggi il portato più drammatico.

Per rendersene conto basta leggere l’ultimo libro di Giovanni Solimine (Senza sapere. Il costo dell’ignoranza in Italia, Laterza 2014). “Se il mancato assorbimento dei nostri laureati – scrive Solimine a pg. 14 – dipendesse soltanto da una loro insufficiente preparazione, le aziende si dovrebbero affrettare a investire nella formazione e nell’aggiornamento dei propri dipendenti o potrebbero cercare manodopera qualificata all’estero, invece ciò non avviene”. Se dunque fosse sufficiente attivare corsi professionali per formare “felici” operai specializzati, non si capirebbe perché il 31% dei nostri laureati in ingegneria ha trovato occupazione all’estero e il numero degli occupati nel settori più innovativi, è molto limitato (poco più del 3%) e tende progressivamente a diminuire (mentre nel resto d’Europa cresce).

A Cagliari, lo scorso 6 giugno, nella Biblioteca regionale, Giovanni Solimine – sollecitato dalle argute domande del giornalista Celestino Tabasso – ha avuto modo di argomentare e contestualizzare le sue teorie. In Italia – ha detto – non esiste più un apparato industriale (non c’è più l’industria chimica, né l’industria automobilistica). La nostra economia si regge ormai quasi esclusivamente su un tessuto di piccole e medie imprese che non investe in innovazione e non sembra avere bisogno di competenze. Non riusciamo ad assorbire quei pochi diplomati e laureati che abbiamo (un numero di gran lunga inferiore a quello dell’area Ocse e dell’Europa); facciamo emigrare quelli più specializzati e non abbiamo nessuna attrattiva verso le persone competenti di altre nazioni.

Così facendo stiamo accumulando un enorme ritardo e costruendo le condizioni per uscire dal novero dei paesi più ricchi e avanzati. Perché ciò accade? Secondo Solimine il paradosso italiano è da mettere in relazione con la povertà intellettuale della nostra classe dirigente. “Metà dei manager, imprenditori, professionisti – ha dichiarato, snocciolando i dati più aggiornati – non legge i giornali, non legge libri non va mai a teatro. Sono cioè persone con consumi culturali basici, assolutamente non paragonabili a quelli dei loro omologhi dei paesi avanzati”. Va da sé che una classe dirigente di questo tipo non è in grado di capire quanto sia importante l’investimento in capitale umano, l’unica risorsa di cui ormai disponiamo in Italia. Il successo degli imprenditori italiani – secondo Solimine – è dovuto, più che alle competenze, alle relazioni familiari e ad altri fattori che poco hanno a che vedere con la conoscenza e la cultura. “Così se in passato abbiamo pensato che si potesse fare a meno delle competenze – ha chiosato – oggi scopriamo che i cinesi sono più furbi di noi…”.

solimineParafrasando don Milani si potrebbe dire che nell’Italia di oggi i padroni conoscono un numero di parole appena superiore a quelle di un operaio e per di più, nel suo complesso, il livello generale di acculturamento della popolazione è basso. Lo dicono chiaramente gli ultimi dati sulla lettura. La percentuale degli italiani che ha letto almeno un libro l’anno, già preoccupante di per sé, è scesa quest’anno di 3 punti percentuali (dal 46 al 43%). Un dato che deve far riflettere perché – scrive Solimine a pg. 10 del suo libro – “la capacità di leggere e di comprendere ciò che si legge rimane lo strumento principale attraverso il quale gli individui alimentano le proprie conoscenze”. Dopo 20 anni di disinvestimenti in cultura e istruzione – ha osservato Solimine – il risultato non poteva essere diverso.  Ma se queste sono le cause del male – ha commentato a sua volta Celestino Tabasso – le cure che vengono proposte soprattutto in Sardegna, terra di dispersione scolastica, sono di tipo omeopatico. Assolutamente inadeguate a curare  una sindrome che mina le basi stesse della società.

Di sicuro non risolvono il problema alla radice impostazioni basate su quell’insopportabile teoria che considera la cultura, i beni culturali, il petrolio della nazione. Il petrolio – ha precisato Solimine – è una cosa ben diversa dalla cultura. Per fortuna negli ultimi tempi al credo dominante, incentrato sulla monetizzazione della cultura, si sta contrapponendo un altro modo di vedere le cose. In quest’ottica Martha Nussbaum ha scritto un meraviglioso libro intitolato “Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica”. Da leggere anche il non meno illuminante “L’utilità dell’inutile” di Nuccio Ordine. Investire in conoscenza serve a migliorare il livello di convivenza e di coesione sociale e crea le condizioni favorevoli a innescare processi di innovazione. Dobbiamo farlo, a prescindere. Dopo di che possiamo anche dire – ha continuato Solimine – che investire in conoscenza conviene perché costa poco. Spendiamo in Cultura lo 0,16% del bilancio dello Stato. Ostinarsi a tagliare dunque serve a poco, non ne avremo risparmi particolarmente significativi. Sono altri i settori su cui bisognerebbe tagliare. “Proviamo invece a immaginare – ha quindi suggerito Solimine – cosa succederebbe se dallo 0,16% passassimo allo 0,32%. Come cambierebbe la vita nelle nostre comunità se a un direttore di biblioteca, a un direttore di museo, a un direttore di una scuola noi dessimo il doppio dei soldi”.

Allo stesso modo, non si combatte efficacemente il fenomeno della dispersione scolastica con corsi professionali e forse neanche con corsi extrascolastici mirati. Per Solimine il problema si cura provando a immaginare modi diversi di fare scuola. Quelli attuali appaiono molto lontani da ciò che può interessare e incuriosire un ragazzo. Nella scuola immaginata da Solimine la lettura acquista assoluta centralità. Diventa pratica educativa, un modo di fare lezione in tutte le materie e non invece, come è ora, qualcosa da fare a casa o relegare nel tempo libero.

Ciò che serve veramente all’Italia di oggi dunque – scrive Solimine, e noi siamo d’accordo con lui! – sono politiche complementari dove “una politica per l’istruzione e le competenze deve raccordarsi a una politica industriale, nel quadro di una strategia più ampia” (pg. 15).

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