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Marcello Fois “L’invenzione degli Italiani , dove ci porta Cuore” – Einaudi 2021

“Questo libro è particolarmente dedicato ai ragazzi delle scuole elementari, i quali sono tra i 9 e i 13 anni, e si potrebbe intitolare: Storia d’un anno scolastico, scritta da un alunno di terza d’una scuola municipale d’Italia. – Dicendo scritta da un alunno di terza, non voglio dire che l’abbia scritta propriamente lui, tal qual è stampata. Egli notava man mano in un quaderno, come sapeva, quello che aveva visto, sentito, pensato, nella scuola e fuori; e suo padre, in fin d’anno, scrisse queste pagine su quelle note, studiandosi di non alterare il pensiero, e di conservare, quanto fosse possibile, le parole del figliuolo. Il quale poi, 4 anni dopo, essendo già nel Ginnasio, rilesse il manoscritto e v’aggiunse qualcosa di suo, valendosi della memoria ancor fresca delle persone e delle cose. Ora leggete questo libro, ragazzi: io spero che ne sarete contenti e che vi farà del bene”.

È questa la prefazione che Edmondo De Amicis scrisse per introdurre il suo romanzo (Treves, 1886): il racconto di un anno scolastico, da ottobre 1881 a giugno 1882 in una scuola di Torino, riscritto da un alunno ormai adulto sulla base di note diaristiche e di memorie che egli ha vissuto e annotato quando era in terza elementare.

Il progetto è chiaro: De Amicis invita i ragazzi a leggere il libro, che intitola “Cuore”, perché “vi farà del bene”…e si serve di Enrico Bottini, uno dei ragazzi di quella terza, come narratore e custode del diario, e dunque dei valori che lo scrittore intende propagandare, e che dovrebbero essere alla base di quella Italia postunitaria (sono passati appena 20 anni dal 1861)  che è tutta da costruire. E non è ancora costruita del tutto ancora oggi.

Due mesi fa, il 24 luglio 2022, a Civitanova Marche, un ambulante nigeriano di 39 anni  Alika Ogorchukwu, che viveva a San Severino Marche con la moglie e un bambino, è stato massacrato di botte da Filippo Ferlazzo, un salernitano di 32 anni, con la stampella che la vittima usava perché claudicante  a seguito di un incidente dell’anno precedente. Le modalità del delitto, l’aggressore sulla testa della vittima  ormai esanime, ricorda il terribile omicidio di George Floyd  il 25 maggio 2020 a Minneapolis. Nessuno ha mosso un dito per aiutare e salvare l’ambulante nigeriano.

Il titolo di una delle prime pagine di “Cuore” è “Una disgrazia”, data nel diario venerdì 21 ottobre. C’è trambusto a scuola, folla di maestri, genitori e un medico: Robetti, un ragazzo di seconda si era fratturato un piede, schiacciato dalle ruote di un omnibus, nel tentativo di salvare un bambino di prima inferiore che, sfuggito al controllo della madre, stava per essere travolto. (la Legge Casati del 1859 prevedeva quattro anni di elementari suddivisi in due cicli di due anni, Inferiore e Superiore).

È un esempio, tra i tanti nel romanzo, del prototipo di italiano che De Amicis, con il libro Cuore, vorrebbe affermare, anzi vorrebbe inventare, secondo quanto sostiene Marcello Fois, nel suo saggio “L’invenzione degli Italiani, dove ci porta Cuore”. Il libro saggio di Fois, al fondo, vuole indagare su chi sono gli Italiani, chi siamo,  sentimentali, generosi, solidali, altruisti, pronti al sacrificio, come il prototipo Robetti, o egoisti, pusillanimi, menefreghisti, anche pronti a buttare al mare dei poveri cristi che cercano fortuna dalle nostre parti, o essere indifferenti alle loro sorti.

È noto come su questo libro, tra gli archetipi della nostra letteratura, come I Promessi Sposi e Pinocchio, letto da generazioni di studenti, tradotto in tante lingue, ci siano state discussioni, feroci critiche e stroncature, anche da parte di illustri intellettuali.  Fois ne ribalta la lettura, e ne riabilita la funzione, esaminandone genesi, struttura e contenuti, l’importanza in quel contesto storico certo, ma con indubbi risvolti nella modernità e nel contemporaneo.

De Amicis, che si è formato sulle idee del primo socialismo italiano, scrive una sorta di breviario laico, tanto che nel libro mancano del tutto riferimenti alla Chiesa e al Cristianesimo. Quei tratti normativi che sottendono alla trama, sostiene Fois, una certa fissità dei personaggi, l’enfatico tratto moraleggiante dei racconti, quelli che comunemente si ritengono i difetti del libro, ne costituiscono anche i pregi. Lungi dall’essere il bacchettone descritto dai tanti detrattori, De Amicis ha una fine strategia di scrittura, ha un progetto in testa, un modello antropologico e sociale da proporre. Fois a pag. 23: “(De Amicis) ha la capacità di inventare una società attraverso l’applicazione di un’utopia…”. In che consiste l’utopia? Fois: “quando nel 1886 nelle vetrine delle librerie, nelle case, nei banchi di scuola apparirà Cuore, questi italiani endemicamente difformi, geneticamente polemici, caratterialmente lagnosi, difettosi nel senso di patria, politicamente pusillanimi, saranno diventati, definitivamente, “brava gente”. In sostanza De Amicis , “che è stato un professionista formidabile, ha come fine ultimo salvare gli italiani da se stessi… “ Ancora Fois “De Amicis progetta, in vitro, il carattere del nostro popolo eludendo scientificamente tutta una parte non secondaria di quello che, anche, eravamo, e siamo, veramente. Eravamo, e siamo, anche, infantili, egoisti, forcaioli, livorosi. De Amicis ci ha resi, esclusivamente, brava gente”.  

Brava gente al fondo, ma facciamo fatica a dimostralo, e nel libro si citano i severi giudizi che di noi hanno dato Leopardi (“Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani”), Gramsci (in  La città futura l’11 febbraio 1917, “mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto  storicamente e ancora oggi”), Piero Gobetti (sul nostro analfabetismo democratico), Gadda, Pasolini, Angelo Del Boca (“Italiani, Brava gente?”) e altri.

Fois a conclusione del libro fa una sorta di analisi e autoanalisi, da sardo, de “Il tamburino sardo” (nel diario di Gennaio 1882), che egli ritiene “un apice dell’opera di Edmondo De Amicis”. Ma lascio ai lettori, soprattutto sardi la spiegazione del perché.  

Tonino Sitzia

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