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4 Novembre 2024
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Il mio corpo – Carla Cristofoli

Era giovane e bella. È rimasta giovane e bella. Si chiama Giovanna, è stata molti anni via dal paese e sino ad oggi non era mai tornata. Io da bambina la osservavo dall’altra parte della strada. Abitavo proprio di fronte a casa sua.

Da casa mia io non mi sono mai spostata. Non mi sono mai sposata e sono rimasta dove sono sempre stata. Giovanna si diceva fosse andata lontano e che avesse sposato uno straniero. Si diceva fosse in America.

La sua stanza stava al primo piano proprio davanti al bagno di casa mia. Io la guardavo di nascosto. Le tende bianche e leggere non impedivano la vista. Non so come fosse, ma io sentivo sempre quando Giovanna tornava. Quand’era ragazza faceva tardi la notte. Io dormivo, ma quando lei tornava mi svegliavo, come per uno strano presagio, e andavo in bagno, piedi scalzi per non far rumore e la guardavo spogliarsi.

Aveva seni bianchi e turgidi, sostenuti da una muscolatura tesa, che seguiva il flusso leggero della vita sottile, allargandosi dolcemente sotto l’ansa dei fianchi, dando slancio a gambe alte e snelle. Nella penombra non ne vedevo il volto, un grosso ciuffo di capelli scuri lo copriva e quando stava cosi a testa bassa intenta a sbottonare la gonna o a sfilare i collant, avevo un forte desiderio di accarezzerla, di spostare il ciuffo e guardarne lo sguardo castano, di prendere il suo viso tra le mie mani.

Poi lei scompariva dalla vista e la luce si spegneva.

Allora riprendevo fiato, sentivo la pianta dei piedi umida, che si appiccicava sul pavimento lasciando un alone lungo il ritorno verso la mia stanza.

Mi riaddormentavo a fatica. Una volta ho sognato che davvero ero nella sua stanza con lei, che davvero prendevo il suo volto tra le mie mani. Ha sollevato la testa e a guardarmi c’era la mia faccia e non la sua.

Giovanna era tutto ciò che un uomo desidera avere. Giovanna era tutto ciò che una donna desidera essere.

Poi Giovanna è partita e non è mai tornata. Non ha salutato nessuno, sua madre non ha mai detto a nessuno dove fosse andata. Un sacco di chiacchiere. Era sparita, semplicemente.

Si è portata via i suoi seni turgidi, i muscoli tesi, l’onda bruna dei suoi capelli. Tutte le sere sapevo che non era tornata, tutte le sere della mia vita sono entrata in bagno, mi lavavo i denti, lavavo il viso accarezzandolo e con gli occhi chiusi sollevavo la testa verso lo specchio, aprendoli ogni volta ritrovavo la mia faccia, ogni giorno più spenta, sempre più banale, banalmente la stessa. Ed ogni sera istintivamente mi voltavo verso la finestra sperando di intravedere qualcosa. La luce dall’altro lato della strada è rimasta spenta. Per anni.

Stamattina dal medico mentre aspettavo il mio turno, Giovanna è entrata. È rimasta bella. Non mi ha riconosciuto, si è seduta vicino a me, mi ha sorriso, come si sorride di cortesia agli sconosciuti. Era la prima volta che vedevo il suo sorriso cosi da vicino: labbra tenere, denti ordinati e candidi. Ho sentito i piedi inumidirsi e gonfiarsi nelle scarpe all’improvviso strette. Uno strano calore ha preso a salire. Ho avuto un sussulto, Giovanna si è voltata, ha spostato la ciocca bruna di capelli e mi ha guardato: ad un palmo dal mio naso c’era il viso di Giovanna, dall’altra parte la mia faccia. Ho stretto forte la borsa per bloccare le mani e reprimere il desiderio di accarezzarla.

Un bruciore di stomaco lentamente risaliva l’esofago. Continuava a salire e a diventare più profondo, un calore intenso e denso ha invaso i capillari e da questi usciva in forma di sudore, tracimando da ogni poro.

Giovanna al mio fianco mi osservava, sorrideva di sbieco. Il suo seno ha sussultato sotto i fiori rossi e verdi del vestito. Rideva e ridendo mi ha detto: ‘è la prima volta?’, ho risposto con una smorfia di sorpresa, ‘è la prima vampata di calore? Voglio dire’, ha precisato lei.

Tutti i suoi denti bianchi mi hanno riso in faccia e quindi ha frugato nella borsa e ne ha estratto un ventaglio nero con stampate fiammeggianti ballerine di flamenco che saettavano tra una plissettatura e l’altra. Un pizzo capriccioso ne chiudeva lo smerlo.

Me lo ha offerto. Mi ha detto ‘A me non serve più, a lei servirà per qualche annetto, lo tenga pure’.

Divertita Giovanna mi ha raccontato che suo figlio va in Spagna. Tutti gli anni e tutti gli anni le porta un ventaglio, più o meno tutti uguali, stesso pizzo, stesse ballerine scostumate. Davvero non capiva, Giovanna, cosa il figlio pensasse ci dovesse fare lei con tutti quei ventagli, che cosa ci andasse a fare lui tutti gli anni in Spagna, a far festa, quello sfaticato.

Io ascoltavo e già sventolavo.

Ho cercato di immaginare il figlio di Giovanna, ma il pensiero che Giovanna potesse aver avuto un figlio in un tempo imperfetto e altrove mi era impossibile. Ho tentato di immaginarlo mentre mangiava Paella e ballava il flamenco sulle Ramblas di Barcellona, mi è venuto un capogiro, ho portato la mano alla fronte e ho visto le mie mani bagnate di sudore.

‘Ora passa, non si spaventi’, ha detto lei, ‘sventoli, sventoli, vedrà che passa’. Ed io ho sventolato, ho continuato a sventolare anche quando la porta dello studio del medico si è aperta e Giovanna è entrata trascinandosi dietro i suoi fianchi mordibi, che facevano ballare il flamenco ai fiori rossi e verdi.

Osservando il suo lento ancheggiare ho pensato alle Ramblas, al porto alla fine delle Ramblas, al vento che accarezza le Caravelle di Colombo, all’oceano che ha accarezzato i fianchi delle caravelle, trascinandole fino all’altro mondo. Quell’altro mondo dove Giovanna ha vissuto tutti questi anni.

Il soffio del ventaglio di Barcellona del figlio di Giovanna mi restituiva l’aria fresca e salmastra di viaggi lontani in luoghi lontani. Ho pensato a tutti i viaggi e i luoghi lontani che non ho fatto e visto e che non farò e non vedrò mai.

In quel momento non ho rimpianto la mia capacità riproduttiva, che non ho mai attivato, ma le mie possibilità di ideare ed eseguire un’opera originale. Il passato attivo e possibile.

Ho rimpianto l’idea di vivere, un progetto di vita. Idee e progetti che non ho mai programmati e realizzati. Chiusa in un piccolo giardino di esistenza banale, infiacchita dal quotidiano e meccanico respirare.

Ne è nato un sentimento misto di stanchezza e tristezza, il sudore si è asciugato, diventando freddo, un fremito si è fatto strada lungo il corpo, che ho sentito definitivamente lontano da me e incapace di parlarmi. Come il Nuovo Mondo di Colombo dall’altra parte dell’Oceano. Sconosciuto, lingua straniera, civiltà incomprensibile. Mi sono alzata, ho lasciato l’ambulatorio e sono tornata a casa. Mi sono fatta una doccia fredda, a lavarmi di quel sudore aspro e avvolgente, che mi ricordava il vestito a fiori rossi e verdi di Giovanna.

Carla Cristofoli

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