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Cortocircuiti in tempo di guerra

Cortocircuito n.1

Ragazzi di zinco e 8 marzo

Alle bare di zinco, pensavo, e all’8 marzo,  nello scorrere di immagini di palazzi fumanti, di donne che avvolgono i cadaveri dei loro bambini in coperte protettive a proteggere il loro sonno, le stesse donne e gli uomini anziani che cercano le vie di fuga, e i giovani che si organizzano a combattere, e le gare di solidarietà per il popolo ucraino.

Cosa c’entrano le bare di zinco con le donne, con l’ 8 marzo, la Giornata Internazionale dei diritti della donna? “Ragazzi di zinco” è un romanzo di Svetlana Aleksievič, la scrittrice bielorussa vincitrice del Premio Nobel per la Letteratura nel 2015 e del “Peace Prize of the German Book Trade” nel 2013. Ci vuole forza per arrivare fino all’ultima pagina, eppure nell’orrore delle testimonianze, si scopre la commozione e la pietà per chi è vittima delle guerre, donne e bambini in primo luogo, perché bambini sono i soldati russi mandati a combattere in Afghanistan tra il 1979 e il 1989. Le stime di quella guerra parlano di 20.000 morti tra le truppe di occupazione sovietiche, 50.000 tra feriti mutilati, mentre tra gli afghani si stimano due milioni di morti tra la popolazione civile. A pag. 11 si legge “in mezzo alla strada una giovane afghana, inginocchiata davanti al suo bambino morto, urlava. Solo una bestia ferita, probabilmente, urla in quel modo…”

E a pag. 119 la testimonianza di una madre russa: “ricordo che quando hanno portato la bara nella stanza, io m ci sono buttata sopra e non finivo più di misurarla…un metro, due metri…mio figlio era alto due metri…la misuravo con le mani, per vedere se corrispondeva alla sua statura…come una matta mi rivolgevo alla bara: chi c’è lì dentro? Sei davvero tu, piccolo mio?…me l’avevano riportato in una bara sigillata”.  Un milione di ragazze e ragazzi partiti per sostenere “la grande causa internazionalista e patriottica”.

La Aleksievič, che aveva già scritto “La guerra non ha un volto di donna”, si reca in Afghanistan, e poi per quattro anni va in giro per la Russia a raccogliere le testimonianze di madri, vedove, reduci,  soldati, ufficiali, infermiere: smaschera la menzogna di una guerra inutile, quella che molti hanno definito il Vietnam russo, scegliendo un punto di vista, quello delle donne e degli uomini semplici che ne sono protagonisti e vittime. “Non amo i libri di guerra – si legge a pag. 285 – e al tempo stesso vorrei sapere come mai amiamo e abbelliamo tanto il dio Marte. Da migliaia d’anni. Forse perché a raccontare la guerra sono i soli uomini? E che cosa ricorderebbero le donne? Ne risulterebbe forse un’altra guerra, del tutto diversa? Così ho cominciato a interrogare le donne, le quali iniziavano col racconto della solita guerra virile per poi abbandonarsi ai propri ricordi…” 

Cortocircuito n.2

Bunker

La memoria è labile e i luoghi rientrano nel paesaggio indistinto dell’oggi. Capita spesso di camminare tranquilli e pensosi lungo il canale oltre la ferrovia, dopo essere passati sotto il ponte di ferro laddove sfocia il rio Sestu, in un luogo che si chiamava un tempo su sciundorau. Superato un ponticello  di legno da cui si osservano  nel canale anatre e germani, folaghe e gallinelle, che starnazzano nelle acque melmose, tra rifiuti e carcasse di gomme affioranti nella bassa marea, si prosegue lungo una strada sterrata. In questi giorni, all’improvviso e come un cortocircuito mentale, mi sono accorto che, proprio lì sulla destra della strada c’è un bunker. All’improvviso quel luogo, che tutti osservano distrattamente o ignorano, ha riacquistato il suo senso, è come se il passato sia riaffiorato nel presente, un passato che pensavamo relegato nel profondo della memoria, un salto temporale che rinsaldava gli anni dal 1939 al 1945, passando per Sarajevo fino al 2022.

Oggi i bunker riaprono in Ucraina, e la storia si ripete.

Nei pressi dello Stagno di Santa Gilla, canale del Rio Sestu: un bunker

Cortocircuito n. 3

Civiltà

Mentre scorrono le terribili immagini dell’Ucraina, si sentono in giro frasi del tipo “siamo tornati alla barbarie”, “siamo tornati ai tempi belluini delle origini”, “possibile che in un mondo così evoluto e civilizzato la guerra…”Sono frasi che rivelano l’illusione che la storia dell’umanità abbia un andamento lineare dal semplice al complesso, dal primitivo al civilizzato, dal male al bene, dalla caverna alla luna.

Erich Fromm (“Anatomia della distruttività umana”) polemizzava con illustri psicanalisti che sostenevano che “l’enigma della guerra è sepolto… nelle profondità dell’inconscio”, quasi che l’uomo abbia una tendenza innata alla guerra. Gli studi storici hanno dimostrato che “Non solo i popoli primitivi, – e particolarmente i cacciatori e i raccoglitori di cibo – erano i meno bellicosi, e che le loro lotte erano caratterizzate da una assenza relativa di distruttività e di efferatezza…mentre le guerre sono diventate col tempo sempre più frequenti e sanguinose ”. A chi gli chiede il perché Fromm risponde“: “Se cercassi di tracciare anche soltanto una breve analisi delle cause della guerra, dilaterei notevolmente la struttura di questo libro; mi dovrò perciò limitare ad addurre un solo esempio: la prima guerra mondiale. La prima guerra mondiale fu motivata dagli interessi economici e dalle ambizioni dei leader politici, militari e industriali di entrambe le parti; non esplose perché le varie nazioni coinvolte avevano bisogno di scaricare la rispettiva aggressione “arginata”. Dunque “Più una civiltà è primitiva, più rare sono le guerre… e la frequenza e l’intensità delle guerre si è accresciuta con lo sviluppo della civiltà tecnologica; è massima fra gli stati potenti con un governo forte, e minima fra l’uomo primitivo non sottoposto a leader permanenti.”

Fromm coglie un’altra contraddizione. La guerra sovverte i valori e ne sottolinea gli estremi: aumenta la distruttività e nel contempo incoraggia i sentimenti di altruismo e solidarietà, che sono assopiti in tempo di pace.

Ciò fa riflettere, quasi che l’uomo ritrova se stesso solo con la guerra.

Tonino Sitzia

8 marzo 2022

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