Il Premio Letterario Giulio Angioni, promosso dal Comune di Guasila era dedicato quest’anno ai racconti sul tema “Giallo oro. Il romanzo giallo nelle sue diverse espressioni” come ne “L’oro di Fraus”, romanzo di Giulio Angioni, considerato all’origine del filone del romanzo giallo o noir sardo – Anno 2021 – V Edizione. Il racconto “Mondo d’acqua” segnalato tra i dieci migliori pervenuti, è risultato quarto tra i cinque finalisti premiati. La premiazione si è tenuta a Guasila il 31 ottobre 2021
Infanzia
Una fiamma alta e una spirale di fumo nero e denso si stagliavano nella notte cupa che già cedeva all’alba, là a sud ovest de Su Stani. Solo una pallida luna, con la sua lattea luminescenza, rischiarava la linea dell’orizzonte, laddove a metà degli anni ’60 dello scorso secolo, in un’area di circa 200 ettari, erano cominciati i lavori per la costruzione del Grande Colosso, un grande impianto chimico che avrebbe dato lavoro a tanti, e a tanti ne avrebbe tolto.
Nel giro di pochi anni il mostro era diventato realtà, le sue luci metalliche di notte illuminavano quella parte di stagno e il fumo saliva cinereo dalle alte ciminiere. In quella notte del 1974 il fumo era però diverso e mio padre mi aveva svegliato per farmelo notare: non era il fumo solito delle ciminiere, ma saliva dalle rive della laguna, e quelle nere volute, là in quella parte di stagno, avrebbero segnato come un trauma il passaggio dall’infanzia all’adolescenza.
Non mi era mai piaciuto quel mostro, sorto in poco tempo a rovinare il mio immaginario di bambino, quando, negli anni della mia infanzia, con mio padre osservavo il profilo azzurro delle montagne del Sulcis. Là, a sud ovest della laguna, in su stani, la notte le montagne si facevano nere, con tante gobbe come una schiera di cammelli nel miraggio dell’orizzonte. Sentivo solo lo sciabordio dell’acqua che accarezzava su ciu, la barca dei pescatori di stagno dal ventre piatto, lo splash ritmico dei remi, e mi sentivo sicuro osservando la sua figura robusta alla luce della lampada.
Il buio era puntellato dalle luci delle altre barche, ed era uno spettacolo, come le lucciole nel bosco. Mio padre raccontava di come lui avesse conosciuto le lampade a carburo, prima di quelle a petrolio e poi a batteria. Nella notte dei tempi è facile pensare che nelle barche si accendessero fuochi a illuminare il lavoro e riscaldarsi dal freddo e dall’umido. Molti anni dopo in un viaggio in Patagonia scoprii che anche gli indios fuegini, da millenni, accendevano i fuochi nelle loro canoe rivestite di pelle di lobos, e che erano le donne a gestirli negli spostamenti lungo i freddi canali australi.
Mia madre si chiamava Maria, tzia Maria come la chiamavano in paese, dove tutti erano tzias e tzius e tutti si conoscevano per nome o al massimo per lomìngiu, come una grande famiglia allargata. Anch’io per gioco la chiamavo spesso così e lei sorridente commentava “La chi seu mamma tua…no seu tzia tua…”
Quando mio padre mi invitava alle sue pescate notturne tzia Maria si lamentava “Ma poita non ddu lassas croccau su pippiu. No est traballu de piccioccheddus cussu chi fais tui…”Io invece non vedevo l’ora di sentire la formula magica “Custa notti andaus a farcai. Benis tui puru?” – diceva mio padre – E io pronto “Certo, ajò che andiamo”…e mia madre si rivolgeva a mio padre con bonario rimprovero “Tottu curpa tua…”
Con gli amichetti di paese andavamo spesso allo stagno di giorno, a fare il bagno, a scoprire la nostra sessualità, a piscai maccioneddu con le nostre cannette improvvisate, a costruire is caseddas per catturare i muggini. Ma di notte era un’altra cosa…nel buio i rumori attutiti de su stani rivelavano il brulichio della vita in quelle acque scure e melmose, e nelle notti di luna le parole si facevano silenzio e ognuno di noi, io e mio padre, divagavamo nei nostri pensieri.
Farcai era la pesca notturna con la fiocina. La lampada posizionata sulla prora illuminava il basso fondale laddove i muggini intorpiditi dal buio erano meno vivaci. Era un tipo di pesca ancestrale, che non tutti praticavano ormai…solo i pescatori più esperti…
“ Po cassai sa lissa de notti toccat abarrai alluttus, sa manu firma e s’ogu puntu…ma su chi contat est su brazzu…est issu chi donat sa forza…”. Così diceva mio padre quando era in vena di pedagogia. Non capitava spesso perché era uomo di poche parole, ma aveva ragione perché la fiocina era lunga circa tre metri, con tredici punte e, seppure l’acqua era bassa, ci voleva forza per vincere la resistenza e riuscire a infilzare il muggine, notoriamente molto rapido. Io ci provavo ma il più delle volte sa lissa, sebbene mesu drommia, sfuggiva alla cattura, e mio padre mi consolava “Deu seu nasciu piscadori, ma po farcai ci bolit pratica…non est cosa po piccioccheddus…” Lui invece non perdeva un colpo ed ogni fiocinata era un bel muggine catturato.
Nel buio della notte incrociavamo qualche ciu e i pescatori che lo conoscevano lo salutavano con rispetto “O Pietru cantu nd’as bogau de lissas oi? La de ndi lassai a nosus puru…”, “O Pietru oi puru as chistionau cun sa lissa?”. Si diceva che mio padre parlasse con i pesci e io ci credevo perché, in quelle notti umide de su stani, lo sentivo biascicare parole incomprensibili e a volte alla luce della lampada si rivolgeva a qualche pesce di passaggio “Baidindi tui chi ses troppu pitticcheddu…”
Con gli amichetti mi concedevo qualche smargiassata…”Quanti ne hai tirato di lisse stanotte?” – chiedevano – e io sparavo “Ne ho tirato un paio, ma grandi…con la fiocina poi è facile perché il muggine di notte è mezzo addormentato…”
Su stani era allora un paradiso e gli anziani raccontavano di come un tempo erano circa 500 le famiglie che ne traevano sostentamento. Dicevano che era un’attività famigliare perché anche le donne lavoravano a costruire le nasse e vendere il pescato, e con quei soldi comprare in paese ciò che serviva. Padri, figli, uomini e donne, salicornie, giunchi e falaschi, canne e tife, gabbiani e gallinelle, garzette, aironi e fenicotteri…era un mondo di cose, affetti, fatiche e sacrifici e tutto si reggeva in come in un ancestrale equilibrio
IL Mostro
Alla fine degli anni ’60 il Mostro cominciò a lavorare a pieno regime e le sue luci metalliche di notte illuminavano quella parte di stagno. Gli uomini, specie quelli più giovani, ne erano attratti come le falene dalle luci artificiali. Qualcosa si era mosso a scuotere i ritmi lenti di quel mondo d’acque.
I pescatori discutevano:
– O Pietru no ti ses arrosciu de tenni sempri su culu in s’acua?
– Immoi cun su dinai de Sa Rinascita cambiat tottu!
– Basta cun custas manus zaccadas de s’acua e de su ludu
– E poi, unu bellu stipendiu siguru d’onnia mesi…poitta su stani est lunaticu, una bella boliggiada arrabiosa, una prena de is arrius e affancullu su traballu.
Mio padre Pietro era un tipo tosto, poco avvezzo ai cambiamenti, anzi ne era scettico e insieme ad altri rispondeva “Piscacadori seu nasciu, e operaiu non potzu diventai…e poi innoi su pisci non mancat mai…”. E invece le pescate si facevano più magre, io crescevo e mio padre invecchiava, si faceva malinconico e con poche battute mi incoraggiava a trovare altre strade “Tui deppis studiai, no est chi tottus depint fai is piscadoris…”.
Mia madre, preoccupata del suo crescente mutismo, e più recettiva ai cambiamenti, spesso lo rimbrottava: – O Pietru mi paris unu procu puntu…mi ddu naras ita est succedendi? Chi no ses cuntentu cambia traballu…
Mio padre aveva fatto amicizia con un pescatore più giovane, una nuova leva si direbbe, uno che non aveva ceduto alle lusinghe delle sirene delle “nuove opportunità”, dello “stipendio sicuro”, della “busta paga mensile” del “lavoro non condizionato dai capricci della natura”…Si era affezionato a quel ragazzo, fresco di sposalizio, alto e dinoccolato, li sentivo chiacchierare, spesso e a lungo, di pesca, di lavoro, del Cagliari di GiggiRRiva, di cui era uno sfegatato tifoso, dei molti che erano andati via dallo stagno per lavorare nella vicina fabbrica.
– Ita ndi naras de sa lissa o Pietru? Est cumenti chi siat maladia
– Eja o Francu, d’appu notau deu puru…non est pisci toccau de lua…poita is ogus de sa lissa no funti biancus e su pisci mortu est a brenti in susu cumenti chi siat toccau de bomba…
– O Pietru sa pisca cun sa lua e sa pisca cun is bombas est proibia…do i funti cosas chi non cumprendu…
Mia madre lo rimbrottava “O Pietru, ma poita no du lassas in paxi a Francu? Mi parit ca ddu tenis a fill’e anima…lassaddu gosai sa sposa immoi chi est gióvunu …”. La giovane sposa, Valentina, veniva spesso a chiacchierare con mia madre, che lei chiamava tzia Maria, come tutti in paese. Aveva un suo segreto di maternità, un accenno di futuro appena visibile e chiedeva consigli…faceva la maestra e la giovane età non le impediva di pesare gli uomini, oltre che i bambini.
-Mi parint preoccupaus is ominis…ita ndi naras o Valentina?
– O tzia Maria “Deu si d’appu nau a Francu…Non c’è bisogno di fasciarsi la testa se il lavoro gira male e la pesca non rende più come un tempo…si può cambiare lavoro e ricominciare…ma Francu est conca tostada…est fissau cun sa pisca…
-A chi ddu naras o Valentina, Pietru est peus de issu…e poi Francu est gióvunu…po issu est prus facili cambiai traballu a sa bisongia…, ma Pietru est nasciu piscadori e chi ndi ddu bogas de su stani est mortu…
Non solo i diretti interessati ma molti in paese discutevano di quella strana moria di pesci, qualcuno affermava che anche il sapore non era più lo stesso…”Est a fragh’e petróliu…” si diceva, e si cominciava a sospettare che il Mostro, là ad ovest della laguna, c’entrasse in qualche modo, e c’era chi reclamava controlli e verifiche sui reflui che si scaricavano in Su Stani.
Il giovane Franco ne era convinto e non si dava pace. Segnalava come la moria dei pesci era maggiore proprio sulle rive in prossimità della grande fabbrica, e ne discuteva animatamente in paese con i tanti scettici che sostenevano come non fosse possibile che un grande insediamento industriale scaricasse nullo stagno i propri reflui non adeguatamente depurati, senza alcun controllo delle autorità competenti. La sua idea, frutto di una giovanile ansia di giustizia, era che non ci fosse tempo da perdere: bisognava mobilitarsi, denunciare il fatto, fare qualcosa di eclatante, perfino arrivare a bloccare le attività dell’impianto fino a che non fosse stata fatta chiarezza. Sapeva bene che si sarebbe scontrato non solo con i padroni del mostro, ma anche con molti dei suoi vecchi compagni pescatori che erano andati a lavorare in fabbrica. Nelle discussioni qualcuno azzardava, non senza ragione “Ma si ndi seis scarescius chi tottu is biddas scarrigant is fognas in is canalis e in arrius chi si ghettant in Su Stani?…
-E difatis s’annu passau s’anti bloccau de arregolli cocciula…po curpa de su colera…
Anche questo era un problema sentito e i più informati, quelli che avevano studiato e letto libri, citavano i dati “Ma lo sapete che nelle peschiere dello Stagno nel 1850 lavoravano 500 operai, e la pesca rendeva 17 mila quintali annui, mentre ora arriviamo a 3000?…L’abbiamo voluto il boom economico? L’abbiamo voluta l’industrializzazione? Ecco il risultato…”
I giornali locali titolavano “Rischi di inquinamento nello stagno”, “Lo stagno non è più lo stesso”, “Pescatori in fuga dallo Stagno”, “Strana moria di pesci: che succede in Su Stani?”
Io frequentavo la terza liceo allora e commentavo quei titoli allarmistici con mio padre e con il suo amico. Li vedevo rabbuiati e preoccupati, e li capivo, legato com’ero a quel mondo d’acque in cui avevo trascorso la mia infanzia e parte dell’adolescenza. Ne discutevo anche con i miei amici, nelle passeggiate che a volte facevamo verso lo Stagno. Tutti notavamo come non fosse più lo stesso. Anche il paesaggio, come noi, era cambiato. Dove era finito il viale di eucalipti delle nostre scorribande infantili, là oltre la ferrovia, sul lato est della grande laguna? E le rovine della batteria antiaerea che proteggeva l’aeroporto nei mesi difficili dopo l’8 settembre. Lì, in quel residuo bellico semidistrutto giocavamo a mamma cua da bambini, e in lontananza si intravedeva il profilo dell’antica chiesetta campestre.
I mesi passavano e la moria di pesci continuava, poi le fiamme e il fumo di quella notte, il concitato succedersi e il precipitare degli eventi nel giro di poche ore, il brusco svegliarmi di mio padre, quel serpentone nerastro che si levava dalle rive, là ad ovest, in quella parte di stagno,
La tragedia
Me la ricordo come fosse oggi, quella notte del 26 luglio del 1974. E mi ricordo in modo distinto e preciso il susseguirsi concitato dei fatti che accaddero dopo quella notte. Era un venerdì caldo e umido, e tutti noi attendevamo la domenica per andare al mare. In paese si chiacchierava animatamente di quanto era accaduto il giorno prima, il 25 luglio, una data che molti dalle mie parti non hanno mai dimenticato. Era arrivata l’ordinanza della Capitaneria di porto: causa il grave stato di inquinamento chimico e biologico si fa divieto di pesca in tutto lo stagno. Ne aveva parlato, con titolone in prima pagina, il giornale locale che tutti leggevano come un breviario, e anche i telegiornali ne avevano dato notizia. Non era un fulmine a ciel sereno: era una burocratica comunicazione di quanto da tempo si temeva, e i cui sintomi erano stati avvertiti per primi dai pescatori, da quelli rimasti come un presidio a vigilare su quanto stava accadendo, quasi come un avamposto a difesa dell’ultimo bastione.
Quella notte, così mi raccontò mio padre, Valentina era venuta a casa per chiedere di Franco. Era un fatto insolito, come era insolito che non si fosse fatto vivo con la moglie per tutto l’arco della giornata.
-Zio Pietro avete per caso visto Franco? È uscito di prima mattina…mi ha detto che andava a sistemare la barca e poi a pesca…e non è ancora tornato…
– No ti preoccupis o Valentina..ma gei mi parit stranu chi Francu siat andau a piscai…De ariseru Su Stani est serrau, non as liggiu in su giornali sa novidadi? Arrazz’e bella notizia!
-Se avete notizie, zio Pietro, fatemi sapere, perché sono preoccupata.
– Tranquilla o Valentina, chi nci funti novas ti ddu fazzu sciri…
Erano le prime luci dell’alba del sabato quando alcuni pescatori cominciarono a diffondere la voce che unu ciu aveva preso fuoco là a sud ovest, proprio a ridosso della Grande Fabbrica che illuminava quelle rive di stagno come un enorme insetto dagli occhi composti. Era stato un guardiano notturno, che faceva servizio all’esterno della fabbrica, a dare l’allarme, ed era stato il primo ad avvicinarsi alla barca che prendeva fuoco, attirato dalle fiamme, dal fumo, dall’acre odore della pece e del legno bruciato. La squadra antincendio della fabbrica aveva cominciato l’opera di spegnimento che era stata poi portata a termine dai vigili del fuoco. All’interno della barca divorata dal fuoco il corpo carbonizzato di un uomo.
Mio padre Pietro e altri pescatori, con le loro auto che sapevano di pesce, si recarono nel luogo della tragedia di primo mattino, come spinti da un oscuro presentimento che faceva fatica a manifestarsi esplicitamente. Si guardavano negli occhi e tanto bastava, più delle parole. Ma già Pietro uscendo di casa aveva salutato la moglie con una battuta…”Seu bessendi… unu ciu at pigau fogu…tengu coru malu…”
Quando arrivarono, attorno alla barca, in un raggio piuttosto ampio, le forze di polizia avevano circoscritto l’area ed era difficile avvicinarsi, ma si intuiva che il corpo non era ancora stato rimosso in attesa delle decisioni del magistrato di turno. Seppure da una certa distanza, dai frammenti carbonizzati che lasciavano intuire qualche traccia di colore, non ci volle molto a capire che quella barca era di Franco. I pescatori la riconobbero subito. Il suo ciu si distingueva dagli altri per una livrea arcobaleno a forma di onda che lui aveva personalmente dipinto nella prua sul lato sinistro della barca. Era facilmente intuibile che quel corpo irriconoscibile, martoriato dal fuoco e in parte carbonizzato, era quello di Franco.
Come quando il dolore di un momento per una perdita improvvisa e inaspettata ci fa tornare indietro nel tempo a recuperare immagini e ricordi felici, così Pietro ricordava le burle bonarie per quell’arcobaleno in una barca che era fatica, lavoro, speranza…A suo tempo lui e altri pescatori lo avevano preso in giro per quella che consideravano una bizzarria, ma lui sorridendo si schermiva…”l’arcobaleno riassume i colori della natura ed è il simbolo della pace…bosàterus no ndi cumprendeis nudda!”.
Tzia Maria, di primo mattino, quando ancora le notizie facevano cenno solamente ad una barca bruciata, si era recata a casa di Franco. Valentina e tzia Maria si erano abbracciate forte forte, un gesto di solidarietà femminile per esprimere vicinanza ma anche per esorcizzare l’angoscia che entrambe provavano. Le parole facevano fatica a manifestarsi e poiché son quelle alla fine che ci aiutano a sopravvivere, Valentina si rivolse a tzia Maria: “Grazie di essere venuta…no tengu novas de Francu…est de ariseru chi no ddu biu…e no est mai capitau chi siat sparessiu po una die intera…e seu meda preoccupada”.
-Abarra tranquilla o Valentina… – disse tzia Maria – e poi quasi come una voluta deviazione del pensiero – “Valentina…no mi nerist chi ses gravida? Si biri de sa facci…e mi paris puru prus belliscedda”
-È vero tzia Maria sono incinta…siamo molto contenti…è un nostro segreto…non lo sa nessuno, ma tra non molto non lo potrò più nascondere…
-Ta cosa bella is pippius, funti fadiosus de fai…ma poi allirganta su coru…ddus bieus crescendi, diventai mannus, e nosus imbecciaus sempri cun sa timoria de ddus perdi…
Il loro dialogo era interrotto da lunghi silenzi, come a volere entrambe una sospensione del tempo, che invece correva veloce, e fuori dalla casa qualche donna rallentava il passo, incerta se bussare, chiedere se c’erano novità, o se fosse meglio aspettare e continuare le quotidiane faccende per non allarmare ulteriormente Valentina.
In tarda mattinata mio padre Pietro era rientrato, con altri pescatori e qualche compaesano, dal luogo della tragedia. Non c’erano dubbi. Il corpo carbonizzato nella barca era quello di Franco. Si recò subito nella sua casa dove sapeva che c’era Maria che teneva compagnia a Valentina: toccava a lui comunicare la morte di Franco, glielo doveva, erano stati amici, avevano condiviso gioie e dolori in quel mondo d’acque, la preoccupazione, la rabbia e il senso di impotenza per l’irreversibile degrado de su stani. Sull’uscio alcuni paesani facevano capannello. Discreti, silenziosi e a capo chino partecipavano a modo loro alla tragedia che aveva colpito non solo la giovane moglie, sa maista di qualche loro figlio o nipote, ma l’intera comunità. Avrebbero voluto chiedere a Pietro “E ita novas?” Ma già sapevano la verità e Pietro entrò in casa anche lui a capo chino. Sapeva che avrebbe avuto difficoltà a riferire quanto era accaduto e cosa aveva visto, ma appena entrò in casa Valentina gli andò incontro e disse “Franco è morto vero?”
Pietro l’abbracciò silenzioso, cercò di trattenere le lacrime per una sorta di pudore maschile, non ricordava da quanto tempo non l’avesse fatto, ma poi il pianto per un attimo lo travolse e, sciolto l’abbraccio, con un fazzoletto si asciugò subito gli occhi. Anche tzia Maria non ricordava di aver mai visto il marito piangere e per riempire il vuoto che si era creato…- Ita ndi naras Valentina, ddu fadeus su caffei? Naramì innui agatu sa caffettera… – Valentina indicò la credenza e con un cenno del capo disse di sì. Sarebbe stato il primo caffè di molti altri che si sarebbero succeduti in quei giorni interminabili tra le indagini della magistratura e il funerale. È usanza di molti paesi del sud d’Italia offrire caffè e biscotti a parenti e amici del defunto quando ci si reca a dare le condoglianze, un modo consolatorio per condividere il dolore e ricordare il defunto.
Intanto la macchina della giustizia si era messa in moto: rilievi della scientifica, sopralluogo del medico legale, del magistrato che avrebbe condotto le indagini, riconoscimento e rimozione del cadavere per l’autopsia di rito. Pur in presenza di un corpo semicarbonizzato, lo testimonianza dei pescatori fu determinante per il riconoscimento del cadavere: si trattava di Francesco Carta, di anni 33, professione pescatore, coniugato con Valentina Serra, di anni 28, maestra elementare. D’altro canto, Franco non aveva parenti stretti che potessero testimoniare, fratelli o sorelle, e i genitori erano entrambi morti.
L’unico elemento di certezza, dunque, era l’identità. Per il resto la morte di Franco era un bel rompicapo, un giallo dai contorni ambigui e nebbiosi, come quelle notti d’inverno in su stani, senza la luna che è sì indifferente alle sorti umane, ma almeno a volte ne rischiara il cammino. Era un giallo per tutta la comunità, ma in primo luogo per gli inquirenti, che dovevano sbrogliare la matassa. Scartata inizialmente come improbabile l’idea di un possibile incidente, le indagini si orientarono su due ipotesi: omicidio o suicidio, ma mentre gli inquirenti prendevano tempo prima di pronunciarsi in attesa degli esiti dell’autopsia e delle indagini, in paese non c’erano dubbi: era stato un omicidio: “Ma candu mai Francu s’est mortu!” “Aicci no fiat arzillu e prontu a sa battalla po difendi su stani e su traballu cosa sua …” Ma quando mai Franco si è tolto la vita! Proprio ora che c’era da combattere per il risanamento dello stagno, dopo la chiusura….”. “No fiat tipu de s’arrendi mancai sa serrada at postu in crisi is chi bivint de sa pisca…”..”Eja…difatis is politicus prima anti permittiu de operri una fabbrica in su stani, poi no anti controllau innui ghettanta is iscarrigus, e immoi promittint “Tutti saranno assunti nei lavori di bonifica…”.
Qualcuno vociferava che Valentina fosse incinta, dunque come poteva Franco abbandonare la moglie e tutto un progetto di vita insieme che un bambino comporta? Altri azzardavano che Franco negli ultimi tempi si era spinto troppo oltre nelle accuse dirette ai padroni del Mostro, che era diventato una testa calda o uno scomodo capopolo e c’era chi aveva interesse a metterlo a tacere.
Noi ragazzi, quelli come me che si apprestavano a concludere gli studi superiori, da tempo ammiravamo le denunce sempre più esplicite di Franco sul Mostro, e sull’impatto che gli scarichi industriali provocavano sull’ecosistema dello stagno. Confusi e sconcertati, eravamo istintivamente convinti, senza avere elementi di razionale certezza, che Franco non poteva essersi suicidato.
Il 28 luglio 1974 fu una domenica particolare. Erano passati due giorni dalla scomparsa di Franco e i giornali locali e anche qualche testata nazionale diedero grande risalto alla tragedia: “Mistero nello stagno: un pescatore muore carbonizzato nella sua barca”, “Muore un pescatore nella barca che ha preso fuoco”, “Fiamme nella notte, morte di un pescatore” “Giallo nello stagno: un pescatore muore nella barca in fiamme”. All’interno della chiesa, in particolare a sa missa manna le preghiere si fecero più accorate e quasi sommesse. E nel sagrato tutti ne parlavano, commentavano e si interrogavano, nel via vai delle persone che entravano e uscivano dall’edicola, l’unica del paese, che, nello stradone principale, era proprio di fronte alla chiesa.
In tarda mattinata e poi di pomeriggio sull’uscio della casa di Franco c’era chi si fermava, dopo i saluti e le condoglianze a Valentina, ma tutto come in sordina, quasi che il peso di quanto accaduto fosse collettivo, e il lutto appartenesse a tutta la comunità.
Sul fronte delle indagini la Procura aveva aperto un’inchiesta e aveva ricevuto i primi riscontri dall’autopsia, da cui non erano emerse evidenze che facessero pensare seriamente ad un omicidio: a parte la difficoltà di riscontri precisi in un corpo martoriato dal fuoco, non c’erano tracce di traumi da arma da fuoco, né da corpo contundente, tuttavia restavano irrisolti due quesiti e relativi dubbi. Primo: un certo calpestio intorno alla barca, impronte che non erano solo quelle di Francesco Carta, o quelle del vigilante che per primo si era avvicinato al luogo della tragedia, oppure quelle dei Vigili del fuoco che si erano avvicinati per spegnere gli ultimi focolai, . Secondo: non c’era una benché minima traccia di una tanica o di qualsivoglia contenitore che contenesse liquido infiammabile, l’unico, a detta dei Vigili del fuoco, che poteva generare una vampata di fuoco così violenta e repentina. Qualcuno le aveva fatte sparire? I Vigili inoltre nel loro verbale facevano cenno alla “stranezza” del fatto che alcuni resti del corpo, in particolare frammenti delle mani, non presentassero particolari segni di spasmi tipici di chi prova dolori così atroci. Ciò lasciava aperta la possibilità che Franco fosse già morto quando le fiamme cominciarono a diventare alte e portare a termine la loro azione distruttiva.
Gli inquirenti, sebbene la ritenessero di scarso peso, non avevano del tutto esclusa anche l’ipotesi dell’incidente, che era circolata nelle alte sfere dei padroni del Mostro: Franco, e forse altri con lui, volevano appiccare un fuoco nelle vicinanze della fabbrica per denunciare il fatto che la chiusura dello stagno fosse da attribuire interamente agli scarichi industriali. Qualcosa poi non aveva funzionato, la cosa era sfuggita di mano, scatenando il fuoco che aveva causato la tragedia. La protesta civile diventava dunque boicottaggio violento andato male.
Nelle dichiarazioni rese alla stampa gli inquirenti avvalorarono l’ipotesi del suicidio, dando ad intendere che Francesco Carta, in un momento di sconforto o forse per un’azione dimostrativa, si fosse tolto la vita. Insomma Franco avrebbe scelto una forma estrema di protesta autolesionista per sollevare un problema che lo assillava e che la chiusura dello stagno aveva reso insostenibile. Alla luce di queste convinzioni, ed espletate le procedure di rito, la Procura autorizzò lo svolgersi del funerale, ma l’inchiesta venne tenuta aperta in attesa di ulteriori approfondimenti, soprattutto dalla scientifica, o di nuovi elementi di prova, comunque ritenuti improbabili.
La chiesa era piena, quel giovedì 1 agosto 1974. Era un pomeriggio assolato e caldo. Molti dovettero attendere la fine della cerimonia nel sagrato, in silenziosa compostezza. Io ero riuscito a entrare, spinto da eventi che mi avevano coinvolto direttamente e che avevano ferito il mio animo. Non c’era niente di religioso in questa scelta. Avevo da tempo preso le distanze dai riti collettivi che mi avevano coinvolto da bambino, processioni, messe, il santo patrono, s’incontru nel giorno di Pasqua, le prime comunioni, cresime, e mia madre, che mi leggeva dentro senza tante parole, diceva spesso “A tui no ti praxit su fragh’e sa cera…” Aveva ragione. Cercavo una mia strada ai grandi perché e misteri dell’esistenza, ma nel guazzabuglio dei pensieri irrisolti che i fatti di quei giorni avevano messo in moto, andare in chiesa e partecipare al funerale, mi sembrava il minimo che potessi fare.
Tra le tante scontate parole pronunciate dal prete durante l’omelia, alcune decisamente allusive “Nessuno ha diritto di togliere quanto Dio ci ha dato in dono” oppure “Dio perdona i peccatori e li accoglie nel regno dei cieli…”, due frasi le ricordo ancora a distanza di anni, affioranti di tanto in tanto dal profondo della memoria: “La morte è un mistero insondabile per tutti noi” – aveva detto il prete – e… “Questa è la morte di un giusto”. In quelle frasi riconoscevo un qualcosa di veritiero. Declinavo la parola giusto nel doppio senso di persona per bene, onesta, dai saldi valori e principi, ma anche che reclama giustizia, senso di responsabilità, non essere indifferenti a quanto accade, avere a cuore gli uomini e la natura di cui siamo parte.
Dopo quella settimana così drammatica e intensa di avvenimenti, emozioni, dolore e rimpianto, il tempo riprese a scorrere nella sua normalità, i giorni divennero mesi e anni, e gli anni segnano il divenire, quello che il tempo ci consente di essere, lavoro, studi, amori, matrimoni, figli, amicizie vecchie e nuove, libri, viaggi, incontri.
Per quanto mi riguarda dopo la morte dei miei genitori, tzia Maria e tziu Pietru, mio padre e mia madre, mi allontanai dal mio paese, come se la loro mancanza facesse venir meno le ragioni del restare. Andai a cercare fortuna in continente, come molti miei amici e amiche. Da lontano però è come se le cose le vedessi meglio, i ricordi giovanili si definissero con più nettezza, i legami con i luoghi dove ero cresciuto si rinsaldassero, la stessa morte di Franco acquistasse un nuovo senso, come se non fosse morto invano, seppure l’inchiesta, tenuta aperta per anni, non avesse fatto alcun passo avanti, e fosse stata definitivamente archiviata.
Ritorno alle origini
Mi capita spesso di tornare in paese, ora che sono omini fattu, come diceva tzia Maria, mia madre buonanima. “De meda ses in bidda?” Tui ses fillu de Tziu Pietru su piscadori” mi salutano gli anziani che lo ricordano e che lo hanno conosciuto…. “E innui bivis?” “E ita fais?” “Ti ses coiau?” “E mulleri tua de innui est? “E cantus fillus tenis?”. “Ses passau a saludai a Valentina?” E io rispondo che il lavoro e le scelte di vita mi hanno portato lontano, che sono sposato, ho due figli, e che, come capita ogni volta che torno in paese, passerò a salutare Valentina.
Le è rimasto il nome di quando era giovane sposa. Non l’hanno mai chiamata Tzia Valentina, e così la comunità se la coccola, e lei, ormai anziana, accetta queste attenzioni e quelle di sua figlia Claudia, che non ha conosciuto suo padre Franco, ma che, a detta dei paesani, gli assomiglia non tanto fisicamente, essendo lui alto e dinoccolato e lei bassottina e paffutella, quanto per determinazione e carattere. È ingegnere ambientale e lavora in uno studio di progettazione in città.
Se chiedo agli anziani di come va la vita in paese loro mi rispondono “Innoi est sempri sa propria minestra”… ma non è vero, il paese è cambiato, come noi del resto, tutto si è fatto più veloce, forsennato, i tempi nostri sembrano diversi da quelli della natura, che, per quanto condizionata dal nostro incedere, segue il suo millenario corso.
Per questo torno spesso sulle rive de su stani, per recuperare il ritmo lento del suo respiro, osservo il pigro svolazzare dei gabbiani, degli aironi e delle garzette, le gallinelle che si nascondono nei canneti, il salto dei muggini a pelo d’acqua. Poi guardo da quella parte, a sud ovest dove tutto è cominciato, come un ciclo inesorabile, la nascita del Mostro, la morte de su stani, il fuoco di quel lontano giorno del 1974, la crisi dell’industria, le bonifiche e i tentativi di recupero per una nuova rinascita di questo eterno specchio, di questo mondo d’acqua, sospeso tra mare, montagne ed entroterra.
Tonino Sitzia
Questo bel racconto consente di entrare nella realtà del piccolo mondo di Elmas che negli anni settanta ha vissuto la rapida e indesiderata trasformazione da paese che vive di pesca in uno stagno pulito a paese configurato nella realtà dell’industria inquinante. In particolare, l’uso della lingua sarda permette di contestualizzare i personaggi e l’ambiente nel quale vivono.
Complimenti Tonino per il bel racconto e per l’ottimo piazzamento.
Leggendolo non ho potuto non ripensare ad un’altra simile e drammatica vicenda che ha colpito dolorosamente la nostra comunità, adagiata anch’essa sul mondo d’acqua.
Nel racconto di Tonino Sitzia, il morto bruciato (un giallo, non dico noir che più s’addice alla metropoli) è un pretesto per dire altro che la morte violenta d’un pescatore. Appare subito che il giallo rimarrà insoluto, archiviato. Archiviato anche nella trama del racconto nella quale la morte del pescatore Franco non è oggetto centrale d’indagine da parte degli investigatori. Parlando di giallo, allora: il morto è su Stani, l’assassino è il Mostro, i mandanti i padroni del Mostro.
A Tonino Sitzia interessa parlare della laguna, del lavoro dei pescatori (e di Franco, personaggio oltre il meccanismo del giallo, oltre la morte; di famiglie con le ansie e le speranze), della Comunità che guarda e sente di amare quel luogo tra terra e acque. Interessa dello stravolgimento di quella natura con la costruzione della fabbrica chimica, il Mostro. Con conseguente sospensione della pesca e delle attività ad essa connessa. Con lingua chiara l’autore ci da la sintesi d’una comunità dentro drammatici cambiamenti.