19 Aprile 2024
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Appunti per un discorso sull’ambiente

Nell’impegno, per contrastare l’inquinamento (dell’aria e dell’acqua, con conseguente degrado e disfacimento dell’ambiente), prevalentemente si guarda, ci si rivolge all’”uomo consumatore”. Ecco, allora, le  reiterate e note esortazioni: “evita di comprare prodotti confezionati con la plastica”; “non disperdere, comunque, la plastica nell’ambiente”; o, “usa la bicicletta, non l’automobile”; per lunghi spostamenti, “non prendere l’aereo, inquinante e dipendente dal petrolio, ma viaggia in treno”; per chi vive nelle isole “cerca e usa imbarcazioni poco inquinanti”. E così via. Viene come rimosso l’aspetto produzione, il fattore industria. Fattore determinante, fattore che agisce “a monte”.

Ecco le domande cruciali: che cosa produrre, quanto produrre, dove e come produrre (ossia il lavoro e le condizioni ambientali dove esso si esplica: dentro la fabbrica stessa e nel territorio dove essa è impiantata). Senza dimenticare per chi produrre.

Ammesso che la gran massa dei consumatori divenisse virtuosa rispetto al problema della plastica: se l’industria continua a produrre manufatti in plastica (e l’industria per sua logica intrinseca tende alla massima produzione) , se continua ad imballare con materiali plastici, il problema è solo appena scalfito. Sulla terra (e poi nei mari) si diffonderà e accumulerà la plastica comunque prodotta. La questione nevralgica allora è la produzione non il  consumo. Da qui sorge, si impone, ammesso che si abbia la volontà di cambiare produzioni, una difficile e complessa fase di riconversione.

D’altronde è più probabile, molto più probabile che sia il sistema di produzione a condizionare il consumatore, anziché l’inverso. Le grandi imprese industriali hanno apparati potenti di propaganda e convincimento, fino al condizionamento delle dinamiche di mercato. Di più: diffondono idee, inducono e determinano costumi, modi di essere. Creano anche falsi bisogni  –  un consumismo esasperato.

Fermiamo tutte le industrie estrattive del carbone e anche del petrolio? Chi dovrebbe farlo? Come, in quali tempi? Se dobbiamo spostarci, viaggiare, aspettiamo che tutti gli aerei vadano ad energia solare? E così le navi? O torniamo alla navigazione a vela? Anche qui ecco la transizione (le riconversioni) con i suoi tempi, le sue complessità.

C’è una oggettiva contraddizione tra che cosa si produce e l’uso che se ne fa di una determinata produzione. Si costruiscono automobili che superano abbondantemente i 150 Km/h, poi si pongono limiti alla velocità: basterebbe che l’industria producesse motori che non superassero quei limiti. La qual cosa non viene neppure pensata. Ci sarebbe la dura reazione dell’industria automobilistica e della stragrande maggioranza dei compratori d’auto. In Italia il limite massimo di velocità è di 130Km/h per le autostrade.

Non esiste presenza più diffusa e costante (densa nei centri urbani) di quella delle nostre automobili. Talvolta guardandole ci vien da considerare che quasi sono anche cose belle, queste automobili – per la loro linea di disegno, per gli arredi interni, per i colori. E ci sfugge, tanto la loro presenza ci pare cosa scontata, “naturale”, la bruttura di questa invasione (statica o in movimento) tra le nostre belle piazze, i nostri monumenti storici – uno sfregio che tendiamo a non percepire.

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