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“Il dito alzato”, Giulio Angioni (2012) – Recensione di Gabriele Soro

C’è nel “Il dito alzato”, come nelle altre opere di Giulio Angioni, una attenzione alla scrittura, al testo, e vi si trattano questioni complesse con chiarezza.
La scrittura è un fare, richiede un lavoro (anche fisico, manuale, di concentrazione e tensione) e allo stesso tempo è un dire. Nella scrittura fare e dire diventano tutt’uno.
Un filo percorre e tiene gli scritti de “Il dito alzato”.
Innanzitutto la Sardegna, una Sardegna interrelata con il mondo “grande e terribile” per usare una espressione di Gramsci.
Giulio Angioni evita facili semplificazioni, anzi dove certe questioni sembrano scontate ecco i distinguo, le sfumature, la messa in discussione del senso comune.
C’è l’identità con tutte le sue sfaccettature, i suoi molteplici aspetti: Identità minoritarie; identità plurime; identità come processo in continuo divenire; identità dentro flussi di riaggiustamento; identità come chiusura e negazione dell’altro; identità perse in un passato leggendario e mitico. E comunque “avere radici”, questa metafora arborea non è aggirabile. Ossia: Ricordare il proprio passato, esserne consapevoli, avere coscienza della propria storia che s’intreccia con la natura della tua terra.
Identità che tendono ad ampliarsi: Dal campanile, dalla comunità, dalle piccole etnie ad un mondo più ampio.
Da qui identità e Occidente; identità e razzismo. L’occidente come ‘invenzione’
europea, come costruzione culturale e mitica.
Edward W. Said in “Orientalismo” ci fa capire che l’Europa costruisce ideologicamente un’idea d’Oriente come un tutto indistinto ed esotico.
E, ancora, c’è ne “Il dito alzato” la questione del razzismo nelle sue trasformazioni. Anche se non è del tutto scomparso (anzi ne vediamo oggi preoccupanti aspetti nella società italiana) quel razzismo biologico, genetico, come dato immutabile di natura, oggi tende a prevalere un razzismo aggiornato, più fine, storico-culturale, financo filantropico…
Ecco a me pare che il filo di cui parlavo tenga insieme tutte queste cose.
Il libro è ricco e denso di idee, di temi, di osservazioni.
A proposito d’una visita di papa Ratzinger in Sardegna, si legge in ‘Bianco padre che da Roma’: “Meglio dire di persone e cose che mi sono parse belle. Ce ne sono state più di quante mi aspettassi. Bella è stata la gente sarda che si è data convegno a Cagliari e si è comportata sempre con dignità e compostezza, come raramente si vede (in televisione) in queste circostanze, a cominciare da tutti quei ragazzi e ragazze in giallo che svolgevano dei compiti che non si capiva nemmeno quali, tanto erano efficienti e per niente ‘vistosi'”
Si potrebbe dire: Questa è la natura dei sardi, sebbene insidiata. Intendendo
quell’elemento d’intreccio, di confluenza -ch’è in ognuno di noi e nella comunità -di cultura e natura, di storia e natura.

Giulio Angioni da miscredente, come dice lui di se stesso, sa cogliere -come un credente devoto, forse non saprebbe- con insolita percezione e rara attenzione l’anima più autentica e vera d’una festa. E quindi anche l’animo sobrio e più vero del comportamento (del portamento, potrei dire) dei sardi: Dignità e compostezza della gente di Sardegna convenuta a Cagliari.
E’ senz’altro da raccomandare, sopratutto a noi sardi, la lettura del capitolo: “Dove appartengono i sardi?”
Ne riporto di seguito un passo e poi la conclusione.
[…] “non è mai stato facile essere e pensarci sardi, ieri come oggi, a qualunque dei piccoli o grandi o infimi imperi mediterranei siamo ‘appartenuti’.
Oggi possiamo ‘appartenere’ ad altro, in modo nuovo e meno doloroso. Ma non senza pensarci e sentirci nel ‘mondo grande e terribile’ che ci contiene tutti…”
“L’umanità è identificata dal suo essere culturalmente diversificata. Una conseguenza della pluralità dei modi di vivere è che si è tanto spesso implicati in situazioni di convivenza tra diversi universi culturali più o meno distinti e contrastanti, più o meno identici e inclusivi: è la compresenza della diversità, che pone il problema della relatività dei diversi modi di vivere, a parte che l’esperienza della diversità diventa spesso inferiorizzazione del diverso e pretesa di eccellenza per il proprio modo di vivere, com’è vizio sommo di noi occidentali. Il relativismo, la relatività storica dei modi di vivere, non è un pericolo […] Non è il male del nostro tempo. E’ il problema del nostro tempo”
Infine ritengo di specifica importanza ‘Raccontare’, ultimo della raccolta che chiude il libro.
Qui l’autore racconta di come si dovrebbe raccontare; scrive della pratica dello scrivere. Riporto qui di seguito, in sintesi, soltanto alcune mie considerazioni.
Quando ad uno scrittore si presenta la necessità forte di dire delle ‘cose’, allora diventa primario, fondamentale il come dirle che non è mera forma, ma diventa sostanza. Da qui l’elemento dell’attenzione: Guardare e ‘sentire’ il visibile, ciò che appare e ciò che della realtà rimane velato, nascosto.
E guardare la realtà nel suo continuo mutare.
Quindi attenzione alle parole, alla frase da comporre perché l’immagine che lo scrittore vuole trasmettere sia la più viva e rispondente possibile…
Ora che Giulio Angioni non potrà più incontrarsi con noi, e parlare tra noi come più volte è stato; né scrivere ancora, ora tanto davvero ci mancherà.
Ma molto e d’intenso ci ha lasciato, e dunque non ci resta che leggere e rileggere i suoi libri: ed è questo un ‘modo’, assieme al ricordo che ne abbiamo, di ulteriore ‘esistenza’ per lui.

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