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José Saramago “Alabarde, Alabarde”

“Alabarde, Alabarde” di José Saramago, Feltrinelli 2014

Da che mondo è mondo risuonano le urla di guerra degli uomini, la guerra che sembra essere ad essi connaturata.
“Alabardas , alabardas, Espingardas , espingardas”: è questo il titolo dell’ultimo e incompiuto romanzo di José Saramago, premio Nobel per la Letteratura nel 1998 scomparso nel 2010, e pubblicato nel 2014 (in Italia dalla Feltrinelli) con scritti di Fernando Gómez Aguilera e Roberto Saviano, e illustrazione in copertina di Günter Grass.
Il titolo richiama certo le guerre del medioevo, e Saramago scrive nei suoi diari (26-12-2009) di averlo estrapolato dalla tragicommedia Exortação da Guerra del poeta e drammaturgo portoghese Gil Vicente (Lisbona 1465 – 1536), ma poteva essere anche “il Vive Dieu Saint Amour” dei Templari oppure “Dio è con noi” o “Avanti Savoia” o il Forza Paris dei sardi nelle trincee della prima guerra mondiale fino ai recenti “Kalašnikov, Kalašnikov”, o ancora “Allah Akbar” e cosi via: Saramago vuole parlare di guerra, un argomento che gli sta a cuore, quasi un urgenza dell’animo, che vorrebbe riuscire a trattare nella forma in cui è maestro, il romanzo, ma che teme di non riuscire a portare a termine data la leucemia cronica che da tempo lo tormentava.
Chi non ricorda la partita a scacchi tra la Morte e il Cavaliere ne “Il Settimo Sigillo” di Bergman? Il cavaliere, tornato esausto e deluso dalla crociata in Terra Santa, dove si era illuso di trovare un senso alla sua vita, dialoga con la morte: vuole una sorta di breve “sospensione del tempo”, che non gli sarà concessa, per poter avere risposte sui grandi misteri della vita e dell’uomo. La Morte, fredda e infastidita, gli dice: “ma non smetterai mai di far domande?” E il Cavaliere “No, non smetterò mai”. E lei “Tanto non avrai mai risposta” “A volte credo – risponde il Cavaliere – che le domande siano più importanti delle risposte”.
Saramago voleva, nel suo ultimo libro appena abbozzato, porre una domanda a se stesso e ai lettori, ben sapendo che, data l’insensatezza degli uomini e dei propri ordinamenti economici e politici, essa è più importante delle risposte: perché la guerra? Anzi, più concretamente, Saramago nei suoi diari scrive (15-8-2009) “È possibile che magari io scriva un altro libro. Una mia antica preoccupazione, perché non c’è mai stato uno sciopero in una fabbrica d’armi, ha fatto strada ad una idea complementare che, proprio per questo, consentirà di trattare il tema a livello romanzesco.”
I primi tre capitoli, gli unici finiti, contengono i temi e l’intreccio del romanzo che Saramago non potrà portare a termine. Conosciamo il protagonista: Artur Paz Semedo, oscuro e laborioso impiegato di una storica fabbrica d’armi, le Produzioni Bellona S.A (non a caso, nella mitologia romana, Bellona è l’antica dea della guerra). Per dirla con Anna Harendt Semedo è un banale esecutore del Male. Cultore di film e reperti bellici, uomo qualunque che fa il suo lavoro, vorrebbe fare carriera nella fabbrica occupandosi di fatturazioni di armi pesanti e non di minuta artiglieria. Artur vive, senza grande cruccio, separato dalla moglie Felícia, convinta militante pacifista, che “per coerenza” lo ha lasciato. Quando nella cineteca della città viene proiettato “L’espoir” di André Malraux, un film sulla guerra civile spagnola del 1939, decide di leggere il libro a cui è ispirato. Nelle ultime pagine si legge “Il commissario della nuova compagnia si alzò in piedi: ‹Agli operai fucilati a Milano per aver sabotato gli obici, hurrà›”.
Superata l’irritazione per il sabotaggio di una produzione bellica, Semedo, spinto dall’ormai ex moglie decide di frugare negli archivi della Bellona S.A per capire se l’industria per la quale lavora ha aumentato i fatturati fornendo armi alle truppe fasciste del generale Franco negli anni dal 1936 al 1939…
Non sapremo mai come Saramago avrebbe portato a termine il romanzo, ricco di implicanze in diverse direzioni: la coscienza individuale e collettiva, l’economia e le armi, il ruolo degli stati e delle ideologie.
Saramago però, dopo aver scelto il titolo, aveva anche deciso la conclusione: “Il libro terminerà con un sonoro Vai a cagare, proferito da lei. Una conclusione esemplare”. (dai diari: 16- 9-2009)

Recensione a cura Tonino Sitzia
Febbraio 2015

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