19 Marzo 2024
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La Cantada campidanesa, un genere salvato dall’estinzione che sta rinascendo anche in città.

Da qualche settimana campeggia tra gli annunci affissi sulla bacheca della Biblioteca regionale un volantino che pubblicizza il “Cursu de cantu de sei” organizzato dall’Associazione culturale cagliaritana Lingua Bia che ha sede nel quartiere di Is Mirrionis. L’iniziativa è riconducibile al fenomeno di riscoperta di questo genere poetico-musicale che si sta registrando negli ultimi anni con corsi di cantada sarda tenuti in diversi centri del Campidano. Quest’ultima proposta ci dice che il genere sta recuperando terreno anche in città. Colpisce peraltro che ad animare il laboratorio di Lingua Bia sia un giovanissimo cantadori professionista di origini cagliaritane che ha appreso la lingua sarda in Piemonte e ha iniziato a cimentarsi nel genere da autodidatta, ascoltando le registrazioni dei grandi poeti del passato.

Se la Cantada sarda sta trovando nuovi interpreti e un pubblico interessato anche in città, non è allora azzardato – mi sono detta –  suggerire in queste pagine la lettura di un libro di storia delle tradizioni popolari, argomento inusuale per il Circolo dei lettori di Elmas. L’autore è Antonio Addis, il libro si intitola Chiesa e feste popolari in Sardegna – 1924-1945 (Edes 2014) e tratta un particolare momento della lunga storia di questo antichissimo genere di poesia popolare.

La Cantada sarda campidanesa è infatti una delle più antiche espressioni della poesia popolare sarda, spesso qualificata in passato come modalità espressiva rozza e priva di valenza poetica. A restituire dignità al genere sono stati in tempi più recenti studiosi come Raffa Garzia, F. Alziator e A.M. Cirese che hanno riconosciuto a questa forma di poesia estemporanea un suo peculiare valore letterario. Le prime testimonianze sulla cantada sarda risalgono al sedicesimo secolo. Notizie del Settecento raccontano di cantate che si svolgevano nella forma tipica delle gare poetiche tra improvvisatori in occasione di sagre campestri e paesane. Testi scritti dei componimenti si ritrovano però solo a partire dall’Ottocento, prima di allora la trasmissione dei componimenti avveniva per via orale nel passaggio da una generazione all’altra. Le prime pubblicazioni di gare poetiche compaiono invece solo nel Novecento, ad opera di appassionati che seguivano i cantadores più apprezzati nei vari paesi in cui si esibivano e ne trascrivevano con precisione e puntualità i versi.

Tornando al libro di Antonio Addis, questo focalizza l’attenzione su un particolare momento storico, coincidente con il ventennio fascista, in cui la poesia estemporanea delle gare poetiche non godeva di particolare favore. Capirne le ragioni può essere un modo per cogliere il significato e la portata culturale delle cantadas nelle società del passato.

Nel 1926 – racconta Addis – entrarono in vigore in Sardegna le leggi del Concilio Plenario Sardo. Tra gli obiettivi di questi provvedimenti vi era quello di favorire il rinnovamento e l’aggiornamento dello stile di vita cristiano. L’assemblea dei vescovi sardi vedeva infatti nella religiosità popolare sarda il persistere di elementi paganeggianti, grumi di superstizione e forme di culto esteriore che nelle feste religiose avevano la loro più diretta manifestazione. Vennero pertanto adottate una serie di misure tese a riportare le feste religiose sotto il diretto e stretto controllo della Chiesa. Si trattava infatti di norme che limitavano fortemente l’autonomia dei comitati e individuavano nelle gare poetiche (art. 9) una delle forme della cultura popolare da colpire più duramente. Queste leggi rappresentavano il punto di approdo di un atteggiamento ostile verso le feste popolari che già negli anni precedenti aveva avuto modo di palesarsi attraverso i giornali cattolici. In ultima istanza i vescovi puntavano alla riduzione delle feste religiose e parallelamente all’imposizione di un programma esclusivamente religioso.

Per far accettare ai sardi il nuovo corso, improntato al rigorismo e all’autoritarismo, i vescovi ricorrevano al sempre attuale argomento della “sobrietà“, giustificato dalla necessità di porre un freno alle spese superflue e di “concorrere al risanamento della patria economia” stremata dalla guerra. Gli argomenti erano quelli tipici dei pauperisti di tutti i tempi: “Il fatto che mentre da un lato migliaia e migliaia di disoccupati (basta consultare le statistiche ufficiali) attendono ansiosamente che il lavoro ritorni, apportatore di benessere e di letizia – scriveva L’Ortobene nel novembre del 1931, dall’altro migliaia e migliaia di cittadini sembrano invasati dalla mania godereccia (siamo ancora nell’epoca delle feste, delle sagre, delle gite e dei balli)“. Si chiedeva – commenta Addis – alla maggioranza dei sardi, che già conduceva una vita grama, di fatica e privazioni, di rinunciare anche a un po’ di evasione e svago, “alla possibilità di godere di qualche giornata ricreativa e spensierata, di trovare momenti di sollievo e di distrazione, di socializzare in allegria per interrompere di tanto in tanto la penosa situazione di solitudine e di sofferenza che accompagnava l’esistenza quotidiana“.

E’ la logica – osserva l’autore – secondo la quale gli strati sociali più poveri devono farsi carico, con ulteriori sacrifici e rinunce, di crisi economiche che non hanno di certo provocato loro, mentre più in alto i pochi privilegiati danzano, banchettano, bevono e ballano al riparo dai contraccolpi e fiduciosi per il futuro.

Antonio Addis sottolinea che le feste dei santi rappresentavano, a quei tempi, per le popolazioni sarde, soprattutto dei paesi, le rare e quasi uniche occasioni comunitarie di un diversivo di cui le gare poetiche, antica e radicata tradizione popolare, rappresentavano l’attrattiva principale. La gara – scrive Addis – era una “vera e, per molti del volgo illetterato, unica scuola popolare” e nel contempo “un intrattenimento completo, ricco anche di colpi di scena… Le masse si entusiasmavano, gustando l’erudizione dei cantori e la melodia del canto, la musicalità dei vocalizzi corali del contra, del mesu oghe e del basciu, che in sottofondo dettavano il ritmo e gli intervalli nella composizione dei versi, l’arte e la bellezza, il gioco e l’abilità dialettica“.

A quei tempi la Chiesa sarda, di cui Antonio Addis è un rappresentante, la pensava però in modo diametralmente opposto. Ne sono una conferma vari passaggi delle lettere dei vescovi sardi riportate nel libro, in cui i poeti improvvisatori vengono definiti ignoranti e rozzi e le gare poetiche giudicate blasfeme, immorali e licenziose. Per questa ragione, fallito il tentativo di disciplinarle, nel 1932 si adottò l’estrema decisione di proibirle.

La memoria popolare, come nel caso di una celebre cantada svoltasi a Sestu nel maggio del 1930 in occasione della festa patronale di San Giorgio, tramanda di cantadoris portati in caserma e interrogati dietro l’accusa di aver veicolato sotto metafora messaggi di critica al fascismo e al duce.

Dall’indagine di Addis, basata su documenti inediti conservati in archivi ecclesiastici e su articoli pubblicati in giornali cattolici dell’epoca si evince però che le esigenze di ordine pubblico erano un fatto secondario rispetto a quelle di natura morale e religiosa. Prima e più duramente del potere politico fu proprio la Chiesa sarda ad aver ideato e tentato di mettere in pratica un lucido e preciso disegno teso ad estirpare alcune tra le più antiche e radicate forme della cultura popolare della Sardegna.

Sandra Mereu

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