28 Marzo 2024
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Gramsci tra Farinata e Cavalcanti: canto X dell’Inferno

La prima pagina manoscritta dei Quaderni del Carcere

Il 2017 è stato, per definizione della Regione Sarda, l’anno gramsciano. In Sardegna, come in tante parti del mondo, si sono susseguite e si susseguono le iniziative, in campi diversi, per ricordare gli 80 anni dalla scomparsa del grande pensatore di Ghilarza.
Tra queste mi ero appuntato quella che si è tenuta a Cagliari lunedì 9 ottobre scorso, nella sede della Fondazione di Sardegna, dove si era tenuto un convegno di studi avente per tema Politica, cultura e lingua in Antonio Gramsci, con interventi di Alessandro Masi, Segretario Generale della Dante Alighieri, Francesco Feliziani (direttore generale dell’Ufficio Scolastico Regionale), Alessandra Carbognin (presidente della sede di Cagliari della società Dante Alighieri), Aldo Accardo (ordinario di Storia Contemporanea all’Università di Cagliari), Francesco Scoppola (direttore generale Educazione e Ricerca del MiBACT), Carlo Salis, direttore di ACCUS.
Il convegno, che non poteva certo esaurire le tematiche suggerite dal titolo, ha avuto il merito di favorire una sorta di incontro virtuale tra due grandi della cultura, Dante e Gramsci sono gli autori italiani più letti al mondo, accomunati dalla passione per la politica, per la cultura e per la lingua, perfino dal destino di esuli, l’uno da Firenze e l’altro dal suo stesso partito in quanto carcerato dal fascismo, fatti salvi ovviamente i diversi contesti storici in cui vissero.
Questi cardini del loro pensiero, che si amalgamano organicamente nell’opera complessiva, si riscontrano simbolicamente rappresentati in sintesi nella particolare e originale interpretazione che diede Gramsci del Canto X dell’Inferno, il canto degli eretici, su cui si sono soffermati alcuni relatori. Sembrerebbe un tema marginale, pensando al Gramsci delle Tesi di Lione, fondatore del PCDI, teorico del marxismo e della Politica, eppure nel primo dei 33 Quaderni manoscritti, datato 8 febbraio 1929, Gramsci, sotto la voce “Note e appunti”, delineava un piano di lavoro in 16 punti, tra cui al punto 5 si legge “Cavalcante Cavalcanti: la sua posizione nella struttura e nell’arte della Divina Commedia”. Egli aveva dunque in mente di scrivere un saggio, un approfondimento su quel canto, che sarà concretizzato nel Quaderno 4 (XIII nella collocazione originaria dei capitoli nei quaderni manoscritti di Gramsci) dal titolo “Il canto decimo dell’Inferno”.
Di cosa parla il canto X? Quali sono i protagonisti principali, quali le interpretazioni, e quale la novità dell’interpretazione gramsciana?
Ci troviamo nel VI cerchio dell’Inferno. in una zona intermedia tra il gruppo degli Incontinenti (che occupano i primi 4 cerchi) e quello dei Violenti (che sono collocati nei 3 gironi successivi). È Virgilio, maestro e guida di Dante nel viaggio infernale, a spiegare, in una famosa terzina, quali sono le anime dannate che incontreranno “Suo cimitero da questa parte hanno/con Epicuro tutt’i suoi seguaci,/che l’anima col corpo morta fanno”. Si tratta degli Eresiarchi, gli Eretici o Atei, coloro i quali non credono nell’immortalità dell’anima: giacciono in sepolcri infuocati, che per contrappasso richiamano i roghi medioevali in cui venivano bruciati gli eretici.

Il canto, che coinvolge emotivamente e drammaticamente Dante sul piano autobiografico, è, per classica definizione, “Il canto di Farinata degli Uberti”, il capo della fazione ghibellina, morto nel 1264, l’anno prima della nascita del poeta. Dante ne conosce bene la storia: fiero avversario dei guelfi, di cui il poeta e i suoi avi facevano parte, si vanta di averli cacciati per due volte da Firenze, al che egli risponde aspro che altrettante volte tornarono, cosa che non fecero i suoi. Dante rispetta la coerenza morale e politica di Farinata, riconosce che fu lui a impedire la distruzione di Firenze quando i suoi compagni di fazione volevano attuarla, lo presenta statuario e orgoglioso “come avesse l’inferno in gran dispitto”. Nel colloquio tra i due, all’improvviso, in una tomba infuocata a fianco di Farinata o forse nel suo stesso avello, appare Cavalcante dei Cavalcanti, suo suocero, avendone sposato la figlia. Cavalcanti è soprattutto il padre di Guido, che Dante considerava “primo tra i suoi amici”, tra i fondatori della Scuola Poetica del Dolce Stil Novo.
Ecco come Cavalcanti si inserisce nel dialogo tra Dante e Farinata:

Allor surse a la vista scoperchiata
un’ombra, lungo questa, infino al mento:
credo che s’era in ginocchie levata.
Dintorno mi guardò, come talento
avesse di veder s’altri era meco;
e poi che ’l sospecciar fu tutto spento,
piangendo disse: «Se per questo cieco
carcere vai per altezza d’ingegno,
mio figlio ov’è? e perché non è teco?»
E io a lui: «Da me stesso non vegno:
colui ch’attende là, per qui mi mena
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno».” (vv. 52/63)
Dante lo riconosce, ma ha un attimo di esitazione e Cavalcanti gridò
«Come? dicesti “elli ebbe”? non viv’elli ancora?
non fiere li occhi suoi lo dolce lume?».
Quando s’accorse d’alcuna dimora
ch’io facea dinanzi a la risposta,
supin ricadde e più non parve fora

Su questi versi si articola la critica di Gramsci, e quella che egli stesso definisce una novità, quasi una scoperta. In una lettera a Tatiana del 20 settembre 1931, egli scrive di voler spiegare, e ribaltare, “il famigerato schema” Cavalcante e Farinata. Per lui il vero protagonista del canto non è solo Farinata, ma soprattutto Cavalcanti. Per Gramsci l’elemento poetico del dolore paterno, le domande angosciose “se tu sei qui perché Guido non è con te?” La caduta repentina nella tomba quando Dante usa il verbo ebbe, dando ad intendere che il figlio sia morto, aiutano e sono funzionali a capire la struttura del canto: il verbo al passato ci fa capire che questi dannati, ed è un elemento del loro dramma, conoscono il passato e una parte del futuro che svanisce man mano che si avvicina al presente, di cui non hanno alcuna cognizione. In tal modo Gramsci contesta la troppo meccanica distinzione tra struttura e poesia nella Divina Commedia fatta da Benedetto Croce. il quale, pur riconoscendo il carattere unitario dell’opera, aveva sottolineato la differenza tra “struttura” dottrinaria, filosofica, didascalico-allegorica (definita come “romanzo teologico” o “etico-politico-religioso”), dalla poesia come “libera fantasia lirica” che si manifesta in particolari momenti del poema.
Secondo Gramsci è arbitrario dividere struttura e poesia, ed è la poesia a dare dignità al racconto, quando essa evoca, suggerisce più che rivelare: così le tre angosciose domande di Cavalcanti aiutano a capire la struttura, e lo stesso Farinata non avrebbe senso senza la presenza dell’altro.
Sono in molti a chiedersi il perché Gramsci tenga tanto a ridare dignità a Cavalcanti, nell’analisi di questo celebre canto. Certo vi è lo scrupolo del filologo: è noto come egli fosse, presso la facoltà di lettere dell’università di Torino dal 1911 al 1915, l’allievo prediletto dell’illustre glottologo Matteo Bartoli, che gli aveva affidato la preparazione di una dispensa per gli studenti della facoltà, e a cui si rivolgeva spesso per i suoi studi sui dialetti sardi, di cui era perfetto conoscitore.
Ma, forse, vi era anche una personale empatia di Gramsci per il dolore di un padre, per la sua condizione di uomo che vive nel “cieco carcere”, lo stesso che egli vive nel carcere di Turi, lontano dagli affetti familiari, di cui ignora la condizione presente, ed eretico all’evolversi della situazione politica del movimento comunista dopo la morte di Lenin, e di cui conosce solo e parziali frammenti di verità.

Tonino Sitzia

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