19 Marzo 2024
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“Giovanni Ruggeri, operaio dirigente” di Antonio Sitzia (Casa Editrice Abbà, 2017) – Recensione di Gabriele Soro

Puntuale e interessante, anche con osservazioni che attengono alla qualità della scrittura, la recensione di Sandra Mereu del libro “Giovanni Ruggeri operaio dirigente”, opera di Antonio Sitzia.
Sul libro intervengo anch’io con ulteriori considerazioni.
L’autore racconta l’impegno politico e l’attività intensa di Giovanni Ruggeri dentro il complesso svolgersi della politica regionale di quegli anni.
Sul piano istituzionale: interrogazioni, interpellanze, lavoro nelle commissioni, interventi, ecc.
E fuori dal palazzo tra gli operai nelle fabbriche e nelle sezioni territoriali:
assemblee, manifestazioni, scioperi, coinvolgimento delle popolazioni, lotte (quando necessario anche l’occupazione di certi stabilimenti)…
Antonio Sitzia ha la capacità di tenere e condurre lungo tutte le pagine del libro i tanti fili che potrebbero aggrovigliarsi o sfuggire di mano. Una complessità sotto controllo e ben dipanata.
Sono tenute ben presenti le vicende politiche nazionali che hanno addentellati europei, quando non del tutto globali, innestandovi i fatti della politica regionale…
In tutto ciò la figura e il ruolo da protagonista che il Pci ebbe allora in Sardegna. Anni di crisi e dello smantellamento degli impianti industriali, della chimica innanzitutto.
Un Pci sicuro riferimento della sinistra nel suo complesso e rapresentante nelle istituzioni degli operai e più in generale di tutto un popolo lavoratore…
Rappresentanza oggi dissoltasi come è facile constatare.
Sono messe in evidenza le continue interrogazioni e interpellanze di Giovanni Ruggeri consigliere regionale, attentissimo al lavoro, agli operai che conosceva di persona, che andava a trovare in fabbrica e con i quali si riuniva, ascoltava, parlava…
Attento e preoccupato dell’assetto industriale in rapporto all’ambiente; alle condizioni concrete del lavoro in fabbrica; alla disoccupazione (per lui era un assillo); alla crisi di intere aree, di interi comparti.
Ma già tutta la politica del Pci era quella orientata sulla “centralità dell’impresa”: quasi non si parlava più di centralità del lavoro, dei lavoratori, benché si facessero le battaglie per il lavoro un po’ trascurando l’aspetto della sua qualità. Ma queste battaglie erano subalterne e tutte dentro le compatibilità dettate dal mercato e dall’impresa. Questa era la contraddizione e su questa impostazione erano marginali le critiche dentro il partito. Forse Giovanni ne era consapevole, ma l’impostazione del Pci sulla questione, vuoi per accettazione passiva della linea, vuoi per convinzione, era accettata pacificamente. Produrre diveniva un valore in sé.
Eppure lo stesso Berlinguer parlava del lavoro ponendo delle domande cruciali: Perché lavorare e per produrre che cosa; dove quanto e come lavorare (ossia un’attenzione alla fatica e alla salute nel lavoro). Mi sarebbe piaciuto che nel Pci degli anni ’70 e ’80 si fossero create le condizioni perché compagni operai come Giovanni Ruggeri avessero potuto diventare segretari regionali del partito o capi gruppo nel consiglio regionale, e perché no, presidenti di Regione; ossia arrivare ai più alti livelli di dirigenza partitica e istituzionale. E non è la visione di un partito ‘operaista’.
Dico soltanto di un partito che avrebbe dovuto creare le condizioni perché compagni operai, distintisi nelle lotte per le notevoli capacità politico organizzative, avessero potuto acquisire più forti e autonome capacità di analisi delle situazioni e più dimestichezza nella difficile e faticosa pratica della scrittura. Abituandosi a mettere per iscritto idee, concetti, scrivendo documenti, relazioni ed evitando le divagazioni oratorie.
Il partito ha mancato il compito di far crescere dirigenti di origine operaia restando deficiente della loro cultura. Ha preso piede invece troppo spesso la presenza di dirigenti dalla cultura libresca abbarbicati nella burocrazia delle federazioni.
Siamo alla fine degli anni ’80. Occhetto andava dicendo che non aveva più senso dirsi anti capitalisti, perché il capitalismo, in sostanza, non c’era più, o comunque era diventato qualcosa che non doveva essere contrastato…
Credo che bisognasse andare a vedere, approfondire, capire che cosa il capitalismo stesse diventando (più diffuso, mondiale, più sfuggente, più finanziario…).
Con la svolta di Occhetto, l’enfasi nel dibattito culturale dentro il Pci si spostava sul trinomio democrazia-libertà-diritti a scapito dell’analisi d’un sistema industriale finanziario capitalistico, del suo potere che andava intaccando gli spazi della democrazia.
A scapito dell’analisi della composizione sociale dei ceti, delle classi, dello sfruttamento e dei rapporti di potere. Dunque una conversione (una svolta) del partito di Occhetto al credo liberal-democratico.
Una domanda rimane attuale: è possibile lottare, battersi per una società libera non sovradeterminata dalla priorità del mercato? Sapendo che le norme giuridiche di una società sono il risultato del conflitto tra le forze sociali per il controllo del potere. Quel mercato e quella finanza globale che, a me pare, hanno determinato lo sconquasso della realtà industriale sarda, vanificando tutte le lotte operaie dentro le quali un protagonista non secondario nell’area cagliaritana fu Giovanni Ruggeri.
Perché mi sono chiesto intellettuali come Umberto Cardia non sentirono la necessità critica di intervenire sulle scelte politico-culturali di Occhetto?
Possibile che il rinnovamento del Pci, da tutti auspicato, mettesse la sordina al merito di tale cambiamento? A Occhetto che affermava non avere più senso un partito comunista, né dichiararsi anticapitalisti, Luciano Canfora rispondeva: “Il capitalismo non soltanto è per sua natura anti egualitario (dunque anti democratico), ma anche -come è noto- tende sempre più a mettere a riparo dagli organismi decisionali elettivi (parlamenti, ecc) le decisioni cruciali che lo riguardano, e che riguardano la vita economica e produttiva dell’intera comunità.” In una società segnata fortemente dalle diseguaglianze, venendo meno democrazia e libertà, i diritti o sono quelli convenienti alle classi dominanti o soffocano. Ma mi si potrebbe avanzare una obiezione: un partito deve pur fare politica, agire concretamente in società complesse e articolate (le così dette democrazie parlamentari); deve pur tener conto d’una economia di mercato e del complesso delle istituzioni che ne sono derivate…
Rivoluzionari o riformisti allora?
I riformisti in Italia non hanno mai riformato un bel nulla e quando si sono cimentati hanno lasciato controriforme con soddisfazione delle classi dominanti e disappunto dei lavoratori. Almeno il PD fosse diventato un partito socialdemocratico (stendiamo un velo pietoso sulla storia dei socialdemocratici italiani) come ce ne sono stati nella migliore tradizione europea…
L”89 occhettiano suonò la campana a morte del Pci.
E dentro questo partito, uomini e donne in carne e ossa ai bivi che si presentarono presero strade diverse e ciò avvenne anche qui, nel nostro piccolo, a Elmas.
Giovanni restò con il ‘Partito’, con l”Organizzazione’, altri minoritari provarono nuove aggregazioni a sinistra, ma con l’animo del naufrago.
Personalmente interruppi l’iscrizione al Pci proprio in quel 1989.

Gabriele Soro

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1 commento

  1. Un’analisi lucida e realista la tua, Gabriele, dentro la quale si legge ancora la sofferenza per quello strappo.
    Ho avuto modo di apprezzare le doti di Giovanni Ruggeri in particolare negli anni ’90, non solo quando ho lavorato con lui in consiglio comunale ma anche nell’azienda nella quale lavoravo.
    E’ stato vicino a noi lavoratori nei periodi bui e critici, quando il nostro lavoro e i nostri salari e stipendi sono stati in pericolo. Penso che nonostante il “cambiamento di rotta” del PCI, in lui fosse rimasta immutata quella positiva spinta utopica che lo portava a voler combattere per migliorare la vita dei più deboli e dei più sfortunati. C’era in lui quel bisogno morale che, proprio come affermava Luciano Canfora, in certe persone rimane anche al di là del naufragio.

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