15 Marzo 2025
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Campusantu

Nonna Brigida.

Si recava spesso in Camposanto, tzia Brigida. Si vestiva di tutto punto, come se dovesse andare a sa missa manna. Era vecchia, classe 1935 , le rughe le solcavano il viso, e seppure ingobbita aveva un portamento fiero e quasi altero, e tutti la salutavano con rispetto. Negli ultimi anni si appoggiava ad un bastone ortopedico, il suo passo si era fatto lento, ma si rifiutava categoricamente di farsi accompagnare in macchina dai figli, Lucia e Giuseppe, che  venivano a trovarla il sabato o la domenica, mentre gradiva la compagnia di Gemma, la figlia di Lucia e di Carlo, figlio di Giuseppe.

I vecchi sono ripetitivi, così dicono, e lei infatti li accoglieva sempre con la stessa  battuta “Come siete bellisceddus e come siete diventando grandi!” “Nonna siamo sempre gli stessi…o Nonna si dice state diventando grandi – dicevano i bambini – e lei “Difatti cussu olemmu nai..”.Era vedova ormai da anni e aveva l’abitudine di andare spesso con loro in camposanto a trovare il marito, il nonno, Tziu Peppinu su ferrovieri, che era morto quando loro erano troppo piccoli per ricordarlo. Lungo strada tzia Brigida si fermava spesso a salutare le persone che incontrava.

– Saludi, tzia Brigida, e oi cumenti andaus?…E ita parit tzia Brigida?…E ita novas? “Si capiva che era conosciuta e rispettata in paese…

– O nonna, sei famosa!” “O nonna, e già ne conosci di gente!” “O nonna noi cominciamo ad andare tanto conosciamo la strada…” dicevano i bambini…

I due figli spesso la rimproveravano.

“Mamma, la devi smettere con questa fissa di portare i bambini al cimitero” – Le dicevano “…Mi faint cumpangia e mi spreviant…” – Rispondeva – “Non ci fanno niente con te che chiacchieri con tutti quelli che conosci… beccius cumenti a tui”.

Tzia Brigida li lasciava cantare “Io chiacchiero con tutti, cun cussus de s’edadi mia, mancai seus abarraus in pagus, e cun is prus giovunus ca mi frimant e mi saludant ”.

Era convinta che ai bambini faceva bene andare al cimitero, era un modo, secondo lei,  per vincere la paura della morte, e relazionarsi con i morti, che, ne era convinta, non sono mai morti del tutto, hanno tante storie da raccontare, e ci aiutano ad affrontare il presente. E poi il rispetto per i morti riguardava anche lei…ormai aveva ottantasei anni, tra non molto sarebbe morta e le faceva piacere immaginare che i bambini sarebbero andati a trovarla e portarle qualche fiore.

Questo suo modo di pensare le derivava da esperienze infantili, quando la morte era cosa che riguardava tutti in paese, anche i bambini, cose d’altri tempi che ormai si erano perse. Erano ancora vivi nella memoria i ricordi di quando aveva assistito alla vestizione di una persona defunta: era una povera donna, una vicina di casa. Ricordava l’affaticarsi dei vicini, s’atropelliu, il mobilitarsi del vicinato, le affermazioni di quanti la conoscevano…”Sciadada tzia Arega, nd’at biu de d’onnia colori in sa vida sua…” “At deppiu cumbatti cun su maridu, tziu Giuanni su zoppu, chi de candu fiat torrau de sa guerra no fiat prus issu…” “Immoi toccat avvertiri su fillu, pobirittu, est emigrau in su corr ’e sa furca, in Germania…”Ricordava l’affaticarsi delle donne intorno al corpo di tzia Arega, e lei aveva appena compiuto dieci anni, quel giorno di maggio 1945. Ricordava la data perché tutti erano contenti e dicevano “Est accabada sa guerra! Est accabada sa guerra…finalmenti”. Tzia Arega era morta il 20 di maggio e lei si era intrufolata tra le gonne delle donne, non ne aveva mai visto una nuda, e osservava la cura nel lavarla e nel vestirla dell’abito buono come se dovesse andare ad una festa…ricordava quel lumino acceso sul vecchio armoà… poi, all’improvviso, la madre le si era scagliata contro “E tui ita nci fais innoi?” “Sbregungia! No funti cosas de pippias…” “Ma cumenti at fattu a brintai in cust’apposentu?” “Torra subitu a domu!”. Era troppo piccola per capire il perché di quel rimprovero, e solo più in là con gli anni ne avrebbe colto il segno, l’aver quasi profanato un rito che aveva le sue regole… Ricordava poi con grande precisione i funerali, non solo quello di tzia Arega, ma anche di altri a cui aveva assistito. Un lungo rosario di gente seguiva la bara portata a spalle da conoscenti e volontari. I parenti seguivano per primi il prete, su vicariu, affiancato da due chierichetti, vestiti con una lunga tunica bianca e rossa, uno che reggeva una grande croce di legno scuro, troppo grande per lui, e l’altro con il secchiello dell’acqua santa. Il silenzio e il ticchettio dei passi fino al cimitero, il fermarsi sull’orlo della fossa, l’avvicinarsi dei tanti che toccavano la bara e si facevano il segno della croce, prima che fosse imbragata con delle corde e calata giù. Tutti si avvicinavano e raccoglievano un pugno di terra che lasciavano cadere sulla bara…la gragnola del terriccio faceva un rumore sordo e inconfondibile che tzia Brigida non riusciva a dimenticare…tum, tum, tum…patum, patum, patum, era un modo per salutare il ritorno del defunto alla terra e molti dicevano “Bai cun Deus”.

Il cimitero con gli anni si era allargato, ma a tzia Brigida non piaceva su portali nou, diceva che era troppo moderno e televisivo e le figlie la prendevano in giro ”O mamma ma che vuol dire televisivo?”, ma lei non si scomponeva e rispondeva con fare misterioso “Gei ddu sciu deu…” Lei,  con i suoi due nipotini, entrava nel cimitero sempre dalla parte de su portali becciu, quello col cancello arrugginito e con la vecchia e nodosa pianta d’ulivo che ne sovrastava l’entrata da un lato. Sull’altro lato dell’ingresso, su una vecchia pietra che tzia Brigida conosceva da sempre, sedevano spesso due anziane sorelle, vestite di nero come per un lutto perenne e la loro presenza costante segnava il paesaggio, come la pianta di ulivo a guardiania de su campusantu becciu. I paesani si dividevano: “No faint mali a nisciunusu”, “Nci passant su tempus diacci, e ita strobbu faint?” Dicevano alcuni, altri “Cussas funti cugurras”, oppure “Po mei funti brùscias”. I più cattivi mormoravano e a iscusi le definivano brabettas…Avevano più meno la stessa età di tzia Brigida, e tutti quelli della sua generazione le conoscevano in paese, ma a lei  per uno strano gioco della memoria, sembrava di ricordare che fossero lì anche quando era bambina. “Seu perdendi corpus”…pensava “Ma candu mai funti setzias ingunis de candu femu pitticchedda?…”

Tzia Brigida non dava retta alle dicerie, anzi più di una volta consultava le due donne, per andare a cercare qualche tomba tra le tante disordinatamente sistemate in su campusantu becciu. Le  due donne le conoscevano tutte e la accompagnavano volentieri. Il vecchio camposanto era a suo modo un monumento storico, attraverso le lapidi si poteva ricostruire la storia del paese risalendo indietro nel tempo di quasi un secolo.  Non c’erano tombe di particolare pregio artistico, la gran parte erano in terra, con lastre di pietra spesso talmente abrase dal lavorio del tempo che si faceva fatica a leggere le date di nascita e di morte. Alcune erano in marmo, quelle dei più benestanti, molte erano accompagnate da una fotografia in bianco e nero, altre si distinguevano per una semplice croce in legno con su scritte le generalità, mentre quelle dei neonati e dei bambini erano segnate da croci bianche. La nonna si fermava su quelle piccole tombe, e sulle foto di quei fagottini con l’abitino del battesimo…su quei volti pallidi avvolti in cuffiette di pizzo…”Sciadadeddus, funti bolaus in celu po fai is angiuleddus…” Commentava  a voce alta e i nipotini chiedevano “Perché sono morti così piccoli?” E lei “Funti mortus de partu, de maladia e de poberesa…cumenti capitada inzandus ” ”O nonna perché sono bianche e piccole quelle croci?…insistevano i bambini e lei rispondeva “Poita funti mortus pippius e notzentis”. Facevano fatica a capire quella lingua a cui non erano abituati…“O Nonna ma perché parli sempre in sardo?… “Volevo significare che erano innocenti come le colombe…” concluse la vecchia.

“E inzandus, tzia Brigida, cumenti si dda passat?” “Fait prexeri a essi scortada de pippius…” “E cument’andat sa saludi”. Era sempre tzia Alleni, una delle due guardiane,  a rivolgersi per prima a lei, mentre tzia Arrichetta, più riservata, si limitava ad alzare la mano in segno di saluto…”E cumenti boleis chi andit? – rispondeva tzia Brigida – a sa mod ’e is beccius…” “E oi innui tocat o tzia Brigida?” “Depu portai is pippius a agattai su nonnu, e poi is piccioccheddus de sa guerra…ma  no m’arregordu innui funti interraus…” ”Torra! No est sa prim’orta…” Teneis arrexioni…seu conch ’e cibudda e mi perdu in tottu cussas cruxis…”

Arrichetta , serafica, si alzò…”Benei cun mei…” Superato il portale, una stradina sterrata divideva in due parti il cimitero e d’ambo i lati i cipressi erano alti sul ciglio. Dapprima un saluto al nonno, poi alla fine della breve camminata, sul lato sinistro quasi dirimpetto alla antica cappella …”Eccus, funti innoi” – disse Arrichetta – tornando sui suoi passi. “No appu mai cumprendiu cumenti mai no seis impari…” – Disse tzia Brigida a voce  alta rivolgendosi alle tombe- ”Seis mortus impari e s’anti dividiu in campusantu…”  In effetti le tombe de is piccioccheddus de guerra, come li chiamava tzia Brigida, era distanti pochi metri l’una dall’altra, e i due bambini, stupiti, si rivolsero alla vecchia  “O nonna ora parli pure con i morti…tanto non ti sentono…”. “Custu ddu narais bosatrus…lo dite voi questo…loro mi sentono…

accostaisì, avvicinatevi, voi che avete occhi buoni e sapete leggere…leggete la data di morte di Giovanni Melis e Giuseppe Aiana…” I due nipotini si avvicinarono alle croci e quasi in coro “O Nonna sono morti il 7 febbraio 1943…nello stesso giorno…e tu quanti anni avevi allora?” Avevo otto anni, conosco la loro storia, tutti ne parlavano in paese…

Quel 7 febbraio 1943

Era il pomeriggio del 7 febbraio 1943 quando le fortezze volanti bombardarono l’aeroporto, lambendo il paese dove era nata. Brigida era nata il 25 gennaio del 1935, aveva da poco compiuto 8 anni e quel giorno non lo dimenticherà più. E come poteva? Era domenica, e lei di primo mattino era andata in chiesa, a sa missa de is pippius, quella de is piccioccheddus, quella delle nove. Era una domenica fredda e limpida di febbraio e la mamma, tzia Consolata, le aveva messo il cappottino e il vestitino della domenica, l’unico che aveva, inamidato e pronto per le feste comandate, come era giusto, e come si usava allora in un paese di contadini poveri come il suo, un paese di appena duemila abitanti, un paese di  pescatori di stagno e di giorronnaderis, di lavoratori a giornata, come suo padre, tziu Boiccu, al servizio di alcuni grandi proprietari che avevano ereditato le terre dai tempi antichi. Brigida si era incontrata per strada con le sue amichette e come formichine allegre si erano recate in chiesa. Era una domenica come le altre, anche se dal giugno del 1940 gli aerei americani, inglesi e francesi si erano spesso avvicinati all’aeroporto, lo avevano sorvolato e bombardato più volte.

“No si depit bessiri de domu de is ses e mesu de mericeddu a is ses e mesu de amengianeddu…poita c’est s’oscuramentu” – diceva tziu Boiccu parlando con tzia Consolata – “… “D’onnia tanti s’intendit su sonu de s’allarmi de su campu…” Ma a lei, a Brigida, cosa importava?…quando mai, a quell’ora e in pieno inverno, sarebbe uscita, lei e le sue amichette?…Era una bambina eppure intuiva che quei giorni non erano normali: da tempo risuonava nell’aria come un lontano brusio di tuoni, e ricorda i giochi dei ragazzi che facevano a gara per riconoscere i rumori sordi degli aerei in quota, se erano americani, inglesi, francesi o tedeschi.

Era domenica, quel 7 febbraio 1943, e pochi sapevano che all’alba, quando ancora era buio, dopo una notte fredda e nebbiosa, due ragazzini erano partiti, con un carretto trainato da un asinello, alla volta di un grosso paesone poco lontano da Cagliari, con un carico di verdure da portare a un battaglione che vi era acquartierato. Era stato un contadino locale, proprietario del carico e  dell’asinello, a chiedere ai due ragazzini di fare quella commissione, evidentemente in uso per quei tempi, quando di lavoro minorile non se ne parlava e tanti bambini lavoravano nei campi, pagati in natura o forse con la promessa di “aggiudu torrau”, come spesso si usava allora. Era una domenica come altre, e il lavoro continuava anche se la notte precedente era risuonato l’allarme, seppure per breve tempo.

In campusantu Brigida, come in un ipnotico trance,  si era fatta raccontare più volte la storia dai due ragazzini…”Femus torrendi a domu…“Su burricheddu, nosus ddu tzerriamus biancheddu, fiat allirgu, e trottada benimindi…tic toc tic toc tic toc, a passu lestu” “E bosatrus?” – chiese Brigida- “Nosus femus prexiaus e no biemus s’ora de torrai po si gosai su dominigu…” Lei sorrideva e ricordava che gli asinelli, così utili ai lavori dei  campi, avevano tutti unu lomìngiu, un nomignolo per distinguerli gli uni dagli altri. In questo caso su burriccheddu aveva una macchia bianca sul muso. Era inconfondibile. Ricordava anche pibioni, che trasportava carichi d’uva durante la vendemmia, oppure muschittu, che muoveva le orecchie per scacciare le mosche, o ancora barrosu per il suo carattere bizzoso, e altri nomi che non ricordava.

Poi la storia era stata ricostruita dagli adulti, dalle testimonianze, dagli archivi storici. Erano le 15.15 circa di quel giorno, 7 febbraio 1943, quando i bombardieri americani, le fortezze volanti, scaricarono a tappetto il loro carico distruttivo all’altezza dell’aeroporto. Le cronache poi raccontano di 14 quadrimotori B 17 che ad altissima quota bombardarono l’area aeroportuale. Fu il primo bombardamento americano in territorio europeo, e si parlò di due ragazzini prime vittime civili. “Femus accanta de s’aeroportu, in fangariu, allirgus e prexiaus, sa bidda no fiat attesu… candu s’inferru s’est presentau coment ’e unu lampu”…

In paese non c’è panico, ma nella notte precedente era risuonato l’urlo d’allarme delle sirene. Poca gente in giro nel pomeriggio di quella domenica. Col passare delle ore, e col buio che avanzava,  l’iniziale silenzio e la paura di ulteriori bombardamenti, lasciano il campo ad un diffuso brusio che si avverte affacciandosi in sa ruga manna…”E ita est succediu?” “Anti bombardau in su campu…” C’è come un presagio di qualcosa di grave che poteva essere accaduto. Una parola corre tra le voci degli adulti, e Brigida non l’aveva mai sentita, spezzonamento…di bombe che sono esplose anche nei dintorni dell’aeroporto, e col passare delle ore arrivano le notizie “Unu carrettoni est abrusciau, unu burriccheddu mortu e is piccioccheddus, cussu chi abarrat de issus, funti stettius portaus dae sa Croce Rossa in s’uspidali militari”. Chi sono is piccioccheddus? In breve le voci corrono, in paese si conoscono tutti…”Chini funti is piccioccheddus”. “Giovanneddu e Peppineddu funti partius de mengianeddu chizzi a carrettoni po portai birdura a Quartu…” – dicono i parenti-  E in paese la voce corre “Unu est su fillu de tziu Basibi Melis e de tzia Antonia Abis, e s’atru de tziu  Salvatore Ajana e tzia Margherita Sarigu” “Sciadaus – si mormora in paese – arrazz ’e disprexeri!” “E  cant’annus teniant?” “Giovanneddu catòdixi   e Peppineddu doxi”.

Brigida ha un ricordo vivo di quella giornata, di quel lungo pomeriggio, dell’attesa, delle strade deserte e del silenzio, del paese che col passare delle ore si riversa in sa ruga manna.

Brigida prende per mano i suoi nipotini, li stringe quasi per proteggerli, come se la guerra potesse di nuovo materializzarsi all’improvviso e loro si lamentano…- O Nonna non stringere cosi forte… non scappiamo mica… – Poi allenta la presa e si ferma in un lungo silenzio…ad ascolatre le voci dei ragazzi di guerra “O Peppineddu ti n’arregordas de cussa di?” “Eja o Giuvanneddu, a s’improvvisu su celu impestau de apparecchius, e poi cumenti unu lampu…no t’appu prus biu…” .

”O nonna, ajò che è tardi…” Scalpitano i nipotini…e sulla via del ritorno, silenziosi, osservavano la vecchia…non vedevano l’ora di raccontare quanto avevano visto e chiedere spiegazioni sul perché la nonna parlava con i morti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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